In un castello sorvegliato da un grosso gatto vanesio, la simpatica topolina Yuku accetta controvoglia di aiutare la mamma a recuperare cibo e adora piuttosto ascoltare con le sorelline le letture dell’amatissima nonna, che di solito accompagna con il suo ukulele. Dopo un attacco del gatto e il ferimento della nonna travolta dal crollo dei libri della biblioteca, Yuku si mette in viaggio per raccogliere il magico fiore dell’Himalaya, che si nutre di luce pura, e salvare così la nonna dall’oscurità eterna. Yuku ripercorre così i passi della sua storia preferita e vive un’avventura irta di ostacoli e pericoli, durante la quale è aiutata dagli animali incontrati per strada e dalla musica del suo ukulele.
Il Belgio si conferma come uno dei paesi specializzati nel cinema d’animazione, in particolare in quello pensato per un pubblico di bambini, svincolato, per fortuna, dai modelli della produzione americana.
Rémi Durin, coregista del film con Arnaud Demuynck, è il fondatore dello studio d’animazione L’Enclume Animation, da anni attivo nella produzione e nella formazione, e con questo piccolo e grazioso film ha realizzato una sorta di manifesto. Il tratto dei disegni di Yuku e il fiore dell’Himalaya è leggero e stilizzato, lontano sia dalla cupezza di racconti più complessi, sia dall’inconsistenza del digitale. Nonostante ciò, è preciso nelle ambientazioni (soprattutto nella prima parte ambientata nel castello) e tende via via sempre più all’astratto, rappresentando il viaggio fantastico di Yuku con colori netti e accesi (arancioni, blu scuro, rosso, giallo) che creano atmosfere irreali, distese eppure al tempo stesso movimentate.
Ovviamente il film è costruito come una parabola morale, con la topolina protagonista che per sconfiggere la morte – identificata dalla piccola Yuku e dalle sorelline con l’oscurità sottoterra – va in cerca di un tesoro (un fiore) che al contrario si nutre solo di luce, secondo un’opposizione basilare ma indubbiamente efficace (da qui il contrasto tra l’oscurità della prima parte del film e la luminosità della seconda).
Per portare a termine il suo compito, Yuku, deve superare ostacoli, trappole e valichi (in senso letterale, come “il ponticello della paura” di cui è guardiano il lupo) e per farlo può contare sia sull’aiuto degli altri, e cioè dei compagni incontrati per strada (una coniglietta balbuziente, uno scoiattolo, un corvo, una volpe), sia sul proprio talento, vale a dire la musica e il canto, con i quali riesce anche ad ammansire il gatto e il lupo.
La cosa interessante di Yuku e il fiore dell’Himalaya è proprio la sua semplicità (anche narrativa, con un percorso sostanzialmente di andata e ritorno), con i vari personaggi investiti di un valore simbolico evidente, ma mai appesantiti da proclami o prediche, o peggio ancora smitizzati nel loro valore narrativo dall’ironia e dalla disillusione tipiche dell’animazione americana, da troppo tempo al servizio di proclami a buon mercato.
Yuku e il fiore dell’Himalaya è un film ingenuo come i piccoli spettatori a cui è rivolto. E la sua lezione, buona e giusta e nemmeno così scontata, è soprattutto un monito a non cedere all’ansia, malattia dilagante del mondo in cui viviamo: «Accetta il giorno», dice la canzone guida del film, cantata una prima volta da Yuku e dalla volpe e poi nel finale da tutti i topolini. «Prendi questo giorno che ride e canta e lascia da parte il domani. Perché conoscere il proprio destino se questo giorno splende?».