Diana è l’unica figlia della regina delle Amazzoni, Ippolita. Cresciuta nell’isola paradisiaca offerta al suo popolo da Zeus, sogna di diventare una grande guerriera e si fa addestrare dalla più forte delle Amazzoni, la zia Antiope. Ma la forza di Diana, e il suo potere, superano di gran lunga quelli delle compagne. Il giorno in cui un aereo militare precipita nel loro mare e la giovane, ormai adulta, salva dall’annegamento il maggiore Steve Trevor, nulla e nessuno riuscirà ad impedirle di partire con lui per il fronte, dov’è determinata a sconfiggere Ares e a porre così fine per sempre alla guerra.
Il film diretto da Patty Jenkins trasporta l’azione – che nel fumetto e nelle prima stagione televisiva era ambientata in piena Seconda Guerra Mondiale – verso la fine della Grande Guerra, quella di trincea, dove il combattimento è opportunamente corpo a corpo, ma non fa grande differenza, perché il piano del generale Ludendorff e della Dottoressa Maru, la strega delle bombe chimiche, è già un piano nazista, un progetto di sterminio su larga scala. In questo contesto, Wonder Woman è però ancora di là da venire, non se ne pronuncia il nome e ci si guarda bene dall’associarla alla bandiera a stelle e strisce (l’America resta sconosciuta, “cara” soltanto in quanto patria di Steve), sembra di stare piuttosto dentro Allied, con i due amanti sotto copertura, tra gala ad alto rischio e paesi di campagna ridotti in macerie.
Gli sceneggiatori del cinecomic ci chiedono questa volta qualcosa in più di un paziente ritorno alle origini e al recupero del mito (per ribadire il quale alcune scene sull’isola delle Amazzoni attingono a piene mani dall’addestramento di Achille in Troy): la richiesta, più ardita, è quella di adottare, in qualche modo, l’estrema ingenuità di cui è portatrice il personaggio di Diana e che la allontana diametralmente dal ricordo dell’icona Lynda Carter (che, con le sue smorfie e quel gioco di occhiali, stava se mai più dalle parte della maestrina che dell’allieva senza appigli).
La Wonder Woman di Gal Gadot è una specie di Don Chisciotte, come racconta l’immagine di lei per le strade di Londra in cappotto lancia e scudo, spaesata tra i comuni cittadini, che non condividono la sua visione dell’universo, imbottita delle figure mitologiche con le quali è stata cresciuta e protetta dalla verità e dalla banalità del mondo. Ma non è facile aspettare senza sbuffare che arrivi la sua tardiva presa di coscienza e, con essa, la consapevolezza che la guerra non è un gioco e la vera forza è nell’amore… Il film ci intrattiene ma ci mette anche a dura a prova, riducendo le avventure della più amata delle supereroine femminili ad un romance tra ragazzi (“Aveva ragione mia mamma…”), dove c’è spazio per lo humour malizioso sugli attributi maschili (l’orologio, s’intende) e per le sequenze al ralenti targate Zack Snyder (produttore e patron dell’operazione) ma non c’è ancora posto per ammirare il personaggio nel pieno della sua fioritura e della sua indipendenza.
Per vedere Wonder Woman, insomma, occorrerà attendere il capitolo francese, attraversando, nel frattempo, questo lungo prologo come una terra di nessuno, anche stilisticamente variabile e incerta.