Louis lavora da un anno in uno studio legale. Cerca di essere gentile con tutti e rendersi disponibile con gli altri me nessuno sembra far caso a lui, neanche in famiglia dove vive con i genitori. Un giorno, dopo una visita medica, scopre di avere una grave malattia. Contemporaneamente, la sua principale Elsa, una spregiudicata avvocatessa, lo coinvolge in un caso dove deve difendere una multinazionale di pesticidi che probabilmente ha provocato il cancro in alcune persone. Louis inizia a intavolare una trattativa con le vittime guidate da Hélène, scontrosa portavoce dell’associazione dei malati di cancro, per un risarcimento. A un successivo controllo medico invece scopre invece che la diagnosi della prima volta è stata completamente sbagliata. Ma non ha il coraggio di confessare la verità e continua così a fingere di essere in pessima salute perché per la prima volta in vita sua ha scoperto di essere riuscito a farsi notare. Non aveva però fatto i conti con le conseguenze.
Una bugia per due è una commedia sociale che non nasce dalla tensione ma, al contrario, da un’anarchia che porta a sovvertire le regole.
Il suo spirito incarna quello di Bruno, il vicino di casa di Louis interpretato proprio dal regista Rudy Milstein e, come il suo personaggio, anche il film si mostra imprevedibile soprattutto nel modo in cui usa la commedia per parlare di temi seri come la malattia, l’inquinamento e l’ingiustizia sociale.
Il primo lungometraggio del cineasta segue le emozioni di Louis. Non sono tanto i dialoghi che definiscono la sua identità, il suo disagio, il suo bisogno di essere accettato, ma ha il merito di entrare nella testa del protagonista, di creare la sensazione di avvertire i suoi pensieri prima che si trasformano in azione. Si vede soprattutto nella parte finale nella scena del processo o in quella intensa del funerale che dimostra come Una bugia per due riesce comunque a trovare, al di là di qualche forzatura grottesca (il personaggio del medico) o di eccesso visionario (i malati di cancro nella sua camera da letto), una sua autenticità e verità.
Attraverso la scissione della figura del protagonista, tra la necessità di compiacere gli altri e di essere se stesso, Milstein costruisce un film sull’apparire che riesce ad essere vivace proprio perché ha fatto – su sua stessa ammissione – improvvisare gli attori. Ogni tanto va fuori controllo ma al tempo stesso ha un’intensa umanità che sembra arrivare dal cinema di Judd Apatow e di Delépine e Kervern.
In più, ha il respiro e il ritmo della commedia sociale di Nakache e Toledano, con personaggi guidati dall’istinto, dalla rabbia proprio per un bisogno di giustizia, incarnato soprattutto da Hélène.
Milstein preferisce mettere dentro il film qualcosa in più piuttosto che in meno, proprio perché ha l’urgenza di raccontare una vicenda coinvolgente, supportato soprattutto dai suoi ottimi attori dove, oltre a Vincent Dedienne nei panni di Louis, risultano particolarmente convincenti anche Clémence Posey in quelli di Elsa e Géraldine Nakache in quelli di Hélène.
Ognuno di loro avrebbe una storia a parte da raccontare, così come la madre del protagonista, esempio anche di come l’equilibrio e il passato della sua famiglia si reggono su una bugia che va avanti da tantissimi anni ma non è stata mai svelata. Infine, l’immagine con il locale pieno è il grande sogno; c’è un po’ l’illusione da cinema del Front Populaire (soprattutto Duvivier di La bella brigata), un po’ il bisogno di una speranza che sarà pure semplicistica ma caratterizza comunque un film che tocca il cuore.