UN DIVANO A TUNISI

SCENE ESILARANTI E RITRATTI IRRESISTIBILI: UNA COMMEDIA TERAPEUTICA SU UN PAESE IN PIENA RICOSTRUZIONE.
UN DIVANO A TUNISI

Selma Derwich, psicanalista trentacinquenne, lascia Parigi per aprire uno studio nella periferia di Tunisi, dov’è cresciuta. Ottimista sulla missione, sdraiare sul lettino i suoi connazionali e rimetterli al mondo all’indomani della rivoluzione, Selma deve scontrarsi con la diffidenza locale, l’amministrazione indolente e un poliziotto troppo zelante che la boicotta. A Tunisi, dove la gente si confessa nelle vasche dell’hammam o sotto il casco del parrucchiere, Selma offre una terza via, un luogo protetto per prendersi cura di sé e prendere il polso della città.

Realizzatrice francese di origine tunisina, Manele Labidi ritrova le sue radici attraverso l’epopea di Selma, eroina scapigliata in bilico tra due culture.

Disorientata come la sua psicanalista davanti a un paese in mutazione, la regista sceglie la commedia e si confronta con le barriere culturali di una comunità che si dimostra scettica verso la pratica analitica.

La prima qualità di Un divano a Tunisi è proprio la scelta di affrontare il suo soggetto col sorriso. Manele Labidi comprende tutto il potenziale comico della situazione e la dimensione assurda di una società schizofrenica che rifiuta un aiuto psicologico. La comicità affiora a ogni seduta, provocando scene esilaranti e collezionando una galleria di ritratti irresistibili (e stonati): un imàm che ha perso la ‘fede’ e la moglie, un’esuberante proprietaria di un salone di bellezza che ha un rapporto difficile con la madre, un paranoico che sogna presidenti e dittatori, un adolescente ribelle pronta a tutto pur di lasciare la Tunisia, un poliziotto reazionario.

Tutti vogliono un posto al sole e sul lettino di Selma, che diventa il teatro di eccessi comici ma anche di momenti malinconici e interrogativi esistenziali. Perché contro la legge del silenzio, Selma ascolta. Ascolta passare sul divano del titolo i malesseri di una società intera combattuta tra tradizioni religiose e bisogno di parlare per ricostruirsi. Dall’altra parte del divano e con la benedizione di Freud, sonda l’inconscio di un Paese e dissolve lo spleen che annebbia la sua vita.

In una scena spassosa e onirica, il fantasma dello psicanalista ebreo appare lungo una strada deserta mentre la protagonista è in panne emozionale. Allineata con le preoccupazioni sociali della Tunisia, la psicanalisi ha conosciuto un picco di interesse presso la classe media dopo la rivoluzione (dei Gelsomini nel 2010), che ha avuto un impatto considerevole sulla psiche della popolazione.

Attraverso le risorse comiche, la regista traccia un affresco sociale efficace. La finzione flirta col documentario, disegnando un Paese in piena ricostruzione (sociale, politica, economica) e filmando un tragitto esistenziale verso la verità e la conoscenza di sé. E la forza metalinguistica del film fa bene (anche) allo spettatore che guarda avanzare Golshifteh Farahani radiosa nei suoi jeans e dentro una canzone di Mina (“Città vuota”). L’attrice franco-iraniana aggiunge al suo carnet un altro ruolo di resistente. Un ruolo a sua immagine che conferma la coerenza delle sue scelte.

Commedia terapeutica, che ‘scambia’ Freud per un fratello musulmanoUn divano a Tunisi soffia un vento di speranza, la primavera araba è appena (ri)cominciata.

UN DIVANO A TUNISI
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