Charlie è un uomo obeso di una cinquantina d’anni. Vive solo, passa le giornate seduto sul divano tenendo corsi di scrittura online, guardando la tv e mangiando compulsivamente. Nella sua vita ci sono Liz, amica infermiera che si prende cura del suo stato di salute sempre più precario, e la figlia Ellie, diciassettenne che ha abbandonato quando era bambina per seguire l’amore della sua vita, Adam, il cui successivo suicidio è alla causa della sua obesità. Sentendo la morte avvicinarsi Charlie decide di spendere il tempo che gli resta per riconciliarsi con Ellie, la quale non gli ha mai perdonato la sua scelta…
A 14 anni di distanza dal Leone d’oro per The Wrestler e dopo i passaggi di Il cigno nero e Madre!, Aronofsky torna in competizione a Venezia con la trasposizione di una pièce teatrale di Samuel D. Hunter, scritta e messinscena nel 2012.
Tra la Bibbia e “Moby Dick”, attraverso il lavoro del commediografo Hunter (che firma la sceneggiatura), in The Whale Aronofsky riprende il tema per lui abituale della deriva fisica come tramite dell’ascensione e della redenzione spirituale.
In questo nuovo film, interamente ambientato (a parte una breve sequenza onirica) nell’appartamento ingombro d’oggetti e di cibo del protagonista – un luogo anche al cinema predisposto come un vero e proprio palcoscenico – tutto ruota attorno al corpo fuori scala di Charlie, qui interpretato da Brendan Frazer: ingombrante, osceno, “disgustoso”, come si sente dire più volte nel film. Nascosto agli occhi dei suoi studenti, ai quali fa lezione senza videocamera, l’ex professore universitario che ha perso l’amore (del suo compagno, della sua famiglia, di sé stesso) e si è abbandonato a una fame insaziabile e a una morte certa, negli ultimi giorni di vita accetta che di mostrare la sua figura e aprire la sua casa alle persone che ancora gli restano: Liz, l’unica a stargli vicino dopo la morte di Adam (di cui era la sorella), Ellie, l’ex moglie Mary e anche Thomas, un giovane missionario entrato per caso nell’abitazione in un giorno di pioggia.
È lui, Charlie, come suggeriscono i continui richiami del testo a “Moby Dick”, la balena bianca, l’espressione, cioè, di un male inesplicabile, la parte oscura di sé stessi in questo caso finita spiaggiata su un divano, a masturbarsi guardando film porno, a mangiare pizza consegnata sul pianerottolo, con l’ipertensione e il cuore vicino al collasso. Ed è lui, ancora, come dice Thomas allo stesso Charlie, l’uomo della Bibbia che ha fatto della sua libertà un’occasione per vivere secondo la carne, rinunciando apparentemente all’amore.
Eppure, tra questi due testi alla base della cultura americana, Charlie sa di aver generato il suo corpo deforme (interamente realizzato con trucchi prostetici applicati al fisico possente di Frazer) proprio per amore – o meglio, per mancanza d’amore – e che dunque in lui c’è una contrapposta spinta al bene e alla redenzione; un’anima divisa in due che conferma la natura intimamente religiosa (se non propriamente cristologica) dei personaggi di Aronofsky.