È lontano il tempo in cui Tim Goodman sognava di fare l’allenatore di Pokémon. Ora, a ventidue anni, lavora nella assicurazioni, e ai Pokémon non ci penserebbe più, o quasi, se la morte del padre, un famoso investigatore, non lo richiamasse a Ryme City, la metropoli dove umani e Pokémon vivono fianco a fianco. Crede che sia soltanto l’ora di dire addio ad un genitore che non ha mai veramente conosciuto, ma c’è del marcio nell’incidente che ha portato alla scomparsa di Harry Goodman, e il giovane Tim si trova a far squadra con il partner del padre, l’irresistibile Pikachu, per far luce su un mistero che assume tinte e dimensioni sempre più inquietanti.
Nato per un videogioco, l’universo dei Pokemon si è espanso in manga, anime, gadget e famose quanto famigerate app, rivelandosi una delle più efficaci operazioni transmediali del nostro tempo.
Forse è il gioco di carte, però, e la sfida che lancia (“Gotta catch ‘em all!” recita il noto jingle) a collezionare quanti più esemplari possibili, tutti con poteri diversi e diverse possibilità di evoluzione, a rendere al meglio la mitologia di queste creaturine domestiche, ispirate all’abitudine infantile giapponese di collezionare insetti, e assurte, generazione dopo generazione, di ragazzi e di personaggi fantastici, a luogo metaforico di riflessione e dibattito sulla coesistenza tra umano e non umano.
Gli episodi della seria animata non si contano e numerosi sono anche i lungometraggi di animazione, ma Pokémon: Detective Pikachu è il primo film live-action, o, per meglio dire, a tecnica mista, ispirato ad un videogame del 2016 per Nintendo 3DS. Come da tradizione (è stato protagonista del primissimo film), in esso è presente il Pokémon leggendario Mewtwo, esemplare dalle potenti capacità di telecinesi, diffidente verso gli umani, che giudica malvagi, ma pronto ad ammettere l’esistenza di alcune eccezioni.
Il film è così manualistico nella sua progressione narrativa e così disseminato delle tracce riconoscibili di più o meno illustri predecessori, che potrebbe essere stato partorito da un software di generazione spontanea di storie per film, se adeguatamente istruito su temi e punti di svolta delle maggiori saghe contemporanee, da Star Wars a Spiderman passando persino per Frozen.
Dunque non è nel plot che va ricercato un motivo di interesse o di intrattenimento, ma piuttosto in un retrogusto leggero e un po’ nostalgico, fatto di innesti eterogenei, che vanno da Chi ha incastrato Roger Rabbit?, col suo recalcitrante investigatore privato dei cartoni animati, all’Incantevole Creamy, con Posi e Nega, al fumetto, al fantasy.
Rob Letterman, che ha già abitato universi di Mostri contro Alieni, si rivela una buona scelta per la regia, così come convince il cast, fedele al principio di eterogeneità, che mette insieme Ken Watanabe con Bill Nighy e con Ryan Reynolds (anche se il personaggio più bello di tutti è Psyduck, il papero-bomba.) Nel nome della varietà, della “diversity” e del film-game.