1997. All’ILVA di Taranto è appena avvenuta l’ennesima morte sul lavoro, ma Caterino Lamanna, operaio addetto ai lavori di fatica nell’industria siderurgia, è pronto a darne la colpa ai sindacati. Caterino è un cane sciolto che pensa al suo imminente matrimonio con la giovane albanese Anna e si fa i fatti suoi, finché Giancarlo Basile, dirigente dell’ILVA, non lo recluta per “farsi un giro e dirgli quello che succede” in fabbrica, e resoconti in particolare le attività del sindacalista Renato Morra, che infiamma gli animi degli operai e li spinge alla ribellione. Basile offre a Lamanna la promozione a caposquadra e l’auto aziendale, ma Caterino chiede di essere mandato alla Palazzina Laf pensando che sia un luogo di privilegio riservato a pochi eletti. In realtà è un edificio in disarmo, incrocio fra una riserva indiana, un manicomio e una prigione, dove sono rinchiusi in orario di lavoro i dipendenti qualificati che hanno fatto l’onda, e che quindi sono invitati a licenziarsi o ad accettare un incarico demansionato e incoerente con la loro preparazione.
Palazzina Laf segna l’esordio alla regia dell’attore Michele Riondino, ed è un esordio fulminante, che porta con sé non solo la conoscenza approfondita della storia ignobile dell’ILVA e delle sue ricadute sul territorio tarantino (dove Riondino è nato e cresciuto), ma anche l’eredità di molto cinema, dalla saga grottesca di Fantozzi fino all’alienazione stralunata di La pecora nera di Ascanio Celestini, Brazil di Terry Gilliam e Tony Manero di Pablo Larrain.
Più di tutti però il personaggio di Caterino Lamanna, che Riondino si cuce addosso ricavandone la miglior interpretazione della sua carriera, è un “poveraccio orgoglioso” degno del cinema anarcoide di Lina Wertmuller: un ruolo che negli anni Settanta sarebbe stato interpretato da Giancarlo Giannini, ma che porta con sé anche la “rabbia proletaria” di Gian Maria Volonté.
“ILVA is a killer” dice una scritta nel film, e non lo è solo in senso fisico, date le morti per malattie causate dalla vicinanza agli altiforni e dal mancato rispetto delle norme di sicurezza sul luogo di lavoro, ma anche nella volontà di umiliare sistematicamente i suoi dipendenti con strategie che da allora in poi sarebbero state definite mobbing. I continui tagli del personale e aumenti dei turni, il tentativo di far pagare ai lavoratori il prezzo di una fantomatica ristrutturazione si traducono in una spada di Damocle perennemente sollevata sulla testa di tutti, impiegati come operai.
La sceneggiatura, dello stesso Riondino saggiamente affiancato dall’esperienza di Maurizio Braucci, non fa sconti a nessuno e crea dinamiche relazionali allo stesso tempo credibili e lunari. E a fare la differenza nel raccontare questa storia è la volontà di non farne semplicemente un “film a tema” ma un lavoro artistico che trova la sua originalità in una serie di scelte molto precise di regia, di montaggio (del bravissimo Julien Panzarasa) e di commento sonoro minaccioso e incombente (le musiche originali sono di Teho Teardo, la canzone finale è di Diodato, che ha origini tarantine).
Dalla scena in cui Caterino emerge con un occhio nero alle visioni (o anticipazioni temporali) che precedono e preconizzano le conseguenze delle azioni in scena, Palazzina Laf costruisce in modo asciutto ed essenziale, ma mai minimalista o documentario, la parabola di un Giuda inconsapevole che è a suo modo anche un povero Cristo. E finalmente torna a mettere il diritto dei cittadini al lavoro – e a condizioni che lo rendano possibile – all’interno del nostro cinema che, dagli anni Settanta in poi, ha in gran parte evitato di parlarne.