Simone Segre è un chirurgo con una ferita aperta. Impossibile per lui ricucire. Da qualche parte nel suo background c’è un dolore che non passa e un padre ingombrante, sopravvissuto alla Shoah. L’omissione di soccorso alla vittima di un pirata della strada con la svastica tatuata sul petto, travolge la sua vita e lo conduce fino a Marica, una giovane donna, figlia della vittima. Per mettere a tacere il senso di colpa assume Marica come collaboratrice domestica e si scontra con suo fratello, giovane camerata che non vuole saperne di ebrei ed emigrati. Ma la vita fa giri imperscrutabili e li sposta dal loro centro.
È una storia vera quella che racconta Mauro Mancini al suo esordio. È il racconto dell’impossibile perdono di un uomo, il cui rifiuto continua a turbarlo.
Appoggiato sulle spalle del suo protagonista, Non odiare sonda i limiti del perdono e affida ad Alessandro Gassmann il suo ruolo più bello e viscerale. L’attore abita il dolore e lo restituisce con una performance rigorosa e implacabile nel rifiutare la grazia. Il percorso, lungo e doloroso, incrocia quello di un fascista in erba che non ha davvero idea di quello che dice e di quello che fa.
Alla maniera di Simon Wiesenthal (“Il Girasole”), di cui per caso o forse per intenzione porta il nome, Simone Segre non cessa di combattere un fascista quando ne vede uno, di ‘farsi giustizia’ almeno fino al giorno in cui qualcosa si spezza. La crisi annuncia una possibilità, quella di confrontarsi con quell’odio sempre attuale, sempre terribile. È possibile perdonare l’imperdonabile? Il titolo del film sembra indicare la via migliore, una strada percorribile a doppio senso. Ma le cose non sono così semplici, al cinema come nella vita.
L’impossibilità di dimenticare è il fondamento che costituisce il protagonista, cresciuto da un padre che vediamo solo nel prologo. Un prologo che risale il tempo e la memoria dichiarando allo spettatore che non c’è niente altro che la sofferenza a fondare Simone. La riva di un fiume, dove è costretto a scegliere chi salvare e chi annegare, diventa il suo luogo d’origine. Su quello stesso fiume, diversi anni dopo scivola ‘navigando’ a vista. Sarà il destino, meglio, un ‘incidente’ del destino a costringerlo a guardarci dentro, a guardare sotto, ad addomesticare il dolore come il cane mordace del padre lasciato come un’eredità feroce.
L’origine ebraica, come il suo passato, finiscono per riprenderlo attraverso lo sguardo atono di un ragazzino fanatico. L’ebraicità del protagonista serve invece al regista una riflessione sulla nuova eruzione di antisemitismo e sul vecchio antisemitismo di estrema destra. Un segno barbaro che è necessario sorvegliare per evitare che abbia un’avvenire politico.
Il regista pesca tra le mille espressioni di razzismo e vandalismo (fisico o virtuale), ‘attaccando’ un emigrante al lavoro o assediando l’ingresso di una questura, mettendo in scena la perversione più o meno latente che agita oggi le nostre società. Società sovraeccitate che inventano capri espiatori per far dimenticare la responsabilità del proprio fallimento, che sottostimano l’odio, disponibile, accessibile e attivato dalle tecnologie digitali o da politici complottisti.
Mancini al debutto punta in alto e diluisce la rappresentazione dell’odio sociale in un romance che resta per fortuna ai margini. Politicamente corretto, Non odiare lavora sulla ‘rottura’ e contro la ri-legittimazione della violenza nello spazio pubblico. La buona intenzione non produce però nessun guizzo formale, nessuna rivelazione rilevante sul tema. Generosamente drammatizzata e deformata rispetto ai ‘fatti’ di partenza, la narrazione resta dentro i codici dello psicodramma ordinario. La decisione di giocare coi grigi, incarnati da Sara Serraiocco, intrappolata tra il ‘bianco’ e il ‘nero’. mare.