Empire, stato del Nevada. Nel 1988 la fabbrica presso cui Fern e suo marito Bo hanno lavorato tutta la vita ha chiuso i battenti, lasciando i dipendenti letteralmente per strada. Anche Bo se ne è andato, dopo una lunga malattia, e ora il mondo di Fern si divide fra un garage in cui sono rinchiuse tutte le cose del marito e un van che la donna ha riempito di tutto ciò che ha ancora per lei un significato materico. Vive di lavoretti saltuari poiché non ha diritto ai sussidi statali e non ha l’età per riciclarsi in un Paese in crisi, e si sposta di posteggio in posteggio, cercando di tenere insieme il puzzle scomposto della propria vita.
Chloé Zhao, cinese di nascita, racconta ancora una volta l’America che ama: quella dei grandi spazi, di cui filma i limiti tanto quanto l’assenza di confini, e della solidarietà fra coloro che si ritrovano ai margini, in questo caso a causa di un welfare e di un sistema sanitario inesistenti.
Fern non è nomade per scelta, ma entra a far parte di quella Nomadland del titolo che sono diventati gli Stati Uniti a cominciare dalla fine degli anni Ottanta, generando un vagabondaggio speculare e contrario allo spirito di frontiera degli inizi, ma che in qualche modo ne contiene ancora il respiro.
Nomadland, basato sull’omonimo racconto di inchiesta di Jessica Bruder, è il ritratto circolare e olistico di una nazione ma anche di un’identità femminile che si è definitivamente sganciata da tutto ciò che fa parte del vivere comune (occidentale): come un domicilio fisso, o una famiglia pronta a sedersi intorno al tavolo nel Giorno del Ringraziamento. Fern lavora sempre, si prende cura delle cose e delle persone che incontra, ma non può più trattenersi in un luogo o in una situazione affettiva. Conosce bene la differenza fra una dimora e una casa del cuore, e non si presta al ricatto della stanzialità, allontanando da sé ogni coinvolgimento permanente.
Zhao entra nel suo sguardo e allarga il mondo intorno a lei, un mondo che è pieno di buchi: nella roccia, nel corpo, nello stesso passato della sua protagonista, nella dignità degli esseri umani, nella coerenza di una società che va incontro al declino perché perde i suoi pezzi lungo una di quelle strade che sembrano non finire mai. E si riconferma regista, sceneggiatrice e montatrice di film che sono suoi visceralmente, e che come il van di Fern (ri)compongono tutti i pezzi della sua anima straniera.
Zhao non ha paura di affrontare di petto il tema centrale del lavoro, o meglio, la sua assenza come vortice che ingoia le esistenze di tanti, e permette a pochi di prosperare sulle sfortune altrui. Non abbassa lo sguardo, non teme la tenerezza, lo strazio, lo smarrimento esistenziale, e li restituisce intatti nella loro forza emozionale primaria. E ciò che può sembrare retorica è in realtà reiterazione poetica, ritracciamento, ripetuta conferma.
Il suo cinema è fatto per gonfiarsi dentro a chi sceglie di aprirle l’anima e lo sguardo, i suoi personaggi sopravvivono alle loro ferite senza negarne lo strazio. Zhao ne condivide i percorsi di guarigione, che non comportano necessariamente una cura, ma forniscono un balsamo da portare con noi a schermo spento, sostenuta dalla fotografia alternativamente intima e dilatata di Joshua James Richards e dall’afflato lirico di Ludovico Einaudi. E racconta quando restare e quando mettersi in cammino, quando trattenere i ricordi e quando finalmente lasciarli andare.