Betty, ingenua sognatrice dell’Ontario profondo, sbarca a Hollywood per diventare una star. In attesa di ruoli e gloria, alloggia nell’appartamento di sua zia, rientrata in Canada. Dietro la porta trova Rita, una bruna femme fatale scampata a un incidente e a due uomini armati che la volevano morta. Ma Rita questo non lo sa (più) perché ha perso la memoria dietro una curva di Mulholland Drive. Betty e Rita, il nome è preso in prestito dalla Hayworth, indagano per ritrovarla, diventando complici e poi amanti. La prima eccelle nei casting, la seconda ricostruisce progressivamente la sua identità. Ma il passaggio al cabaret “Silencio” ridistribuisce nomi e ruoli. Betty si ‘sveglia’ Diane Selwyn in un misero appartamento. Sempre bionda e sempre provinciale, tenta di fare l’attrice e ottiene solo ruoli insignificanti. Conosce e ama Rita, che adesso si chiama Camilla Rhodes, è una star del grande schermo e si appresta a sposare un regista in voga. Rigettata dall’amante e da Hollywood, Diane assolda un killer per uccidere Camilla e poi ‘sogna’ per ritrovare la sua innocenza.
Tutti amano Mulholland Drive ma nessuno è sicuro di averlo compreso o di aver compreso tutto almeno. Rivederlo è imperativo. Puro oggetto di fascinazione, la versione restaurata in 4K è l’occasione per ripiombare nell’universo lynchiano, familiare e opaco, e continuare l’indagine.
Perché Mulholland Drive è un grande film onirico che mette in discussione il racconto tradizionale e si appoggia a elementi narrativi ostensibilmente evidenziati (effetti di focalizzazione, principio di casualità …). Concepito come musica, è un profondo viaggio emozionale in cui la messa in scena opera a livello sensoriale. Il senso viscerale del film non passa per le parole né per una narrazione razionale. Ogni dettaglio dell’intrigo è al servizio di sensazioni che Lynch trasmette attraverso processi cinematografici. Mulholland Drive è a immagine della strada di Los Angeles che gli ha dato il titolo: “sinuoso e sospeso nel tempo”.
Una favolosa esperienza cinematografica, un mélange di sensazioni misteriose che risuonano con l’intrigo sulla superficie del film. Per comprendere Mulholland Drive bisogna soprattutto viverlo e sentirlo. Il suo onirismo, poi, autorizza qualsiasi interpretazione. I misteri abbondano come le soluzioni possibili. La più accreditata è che la seconda parte si collochi cronologicamente davanti alla prima. I due primi terzi del film sarebbero allora l’ultimo sogno di Diane, l’espressione di un rimorso e la sola maniera di ritornare sul suo crimine.
L’eroina bionda sostituisce la (triste) realtà con un mondo che accorda ai suoi desideri. Colpevole della morte dell’amata e volubile Camilla, sogna il suo doppio (Betty), salva Rita (il doppio di Camilla) e si accredita un potenziale da star. È una spiegazione possibile, è il debutto di un sogno incoraggiato da un dettaglio, un guanciale rosa dopo il prologo swing. Ma si possono tentare letture altrettanto suggestive. Se i primi cento minuti del film fossero in realtà la visione soggettiva di Camilla e della sua mente sconvolta dall’incidente? Come per la prima ipotesi, il momento cerniera in cui Camilla introduce la chiave nella piccola scatola blu segnerebbe il ritorno alla realtà del passato attraverso il buco nero dell’inconscio. Chi è allora a condurre il racconto? Diane o Camilla? Allo spettatore giocare e giudicare, lasciarsi guidare dalla propria intuizione o lasciare che Lynch la guidi.
Mulholland Drive dimora all’incrocio di due esperienze e due livelli permanenti di visione: una passiva e prigioniera volontaria dei sogni di Lynch e un’altra attiva e ostinata a interrogare le immagini che sfilano. Su quel serpente d’asfalto che è la Mulholland Drive scorrono due volti reversibili ma indissociabili di una stessa realtà, o di una stessa fantasia, dove tutto è piazzato sotto il segno del doppio e il termine ‘playback’ recupera il suo significato etimologico: to play recitare back di nuovo.
Ci sono due donne, due storie, due versioni di una stessa audizione, c’è una realtà visibile e immediata che ne suggerisce allo stesso tempo una più invisibile e segreta, ponendo il film sul crinale della postmodernità, nella sua maniera di abbordare la narrazione e i personaggi, ma inserendolo nella linea del grande cinema classico. Dopo una versione rosa, la storia di Betty a Hollywood, il film volge al nero. La seconda parte, più breve, più sincopata, è un trip paranoico in cui Lynch ‘deforma’ (plasticamente) il classicismo del primo atto, un deliberato saccheggio della fluidità che ha prevalso fino a quel momento. È la stessa storia che riprende invertendo i personaggi. Ad annunciare il cambiamento di rotta è la sequenza del club Silencio, cardine del film. Sul suo palcoscenico si tiene una lezione magistrale sulla potenza del falso a partire da una versione struggente e latina di “Crying” di Roy Orbison, cantata in playback. Nel mondo lynchiano tutto è possibile, tutto resta sempre aperto. Il prodigio di Mulholland Drive è di essere un oggetto stilizzato e allo stesso tempo interattivo che inventa piste di fiction future integrando nella sua materia tutto il passato dell’opera di Lynch e l’età d’oro del cinema hollywoodiano.
Del resto Mulholland Drive è un film hollywoodiano, ma nel senso che si inscrive nella geografia e nella storia, specialmente cinematografica, di Hollywood. La fabbrica dei sogni definisce il film ed è sempre il filtro di una nostalgia che gioca pienamente il suo ruolo. Per esempio, Rita è senza identità per incarnare meglio tutte le star di Hollywood. Se Betty evoca una Doris Day naïf, Rita ha il sembiante di Ava Gardner, le forme di Jane Russell e l’allure di Rita Hayworth. È un’incarnazione glamour d’altri tempi, lo schermo di tutti i desideri, quanto Betty una spettatrice media, che finisce per ‘baciare’ il suo sogno hollywoodiano. Come James Stewart in Vertigo, Diane fa l’amore con una morta che indossa una parrucca bionda. Dentro un mondo diretto da uomini brutali, produttori, mafiosi, cowboy, nani, clochard mostruosi, Lynch inventa un’elasticità dei luoghi, dei tempi, delle esperienze e dell’identità, invitando lo spettatore a lasciare la zona di confort e a partecipare all’azione. Anche questo procedimento è tipicamente hitchcockiano.
Lo spettatore anonimo e passivo diventa agente attivo della finzione, entra nell’immagine per godere meglio dello spettacolo. Agitando sotto i nostri occhi una scatola blu, un oggetto insensato sorto da nessuna parte, Lynch ci dona una chiave che solleva il coperchio, interrompendo la narrazione. Mulholland Drive ci risveglia dal sonno, ci rivela l’inverso del sogno e poi “silencio”. Diane ‘muore’, sola, dimenticata. Un destino come un altro. Il macabro finale di una vita piena di promesse. È la crudeltà di cui è fatta Hollywood. È la sua natura e quella del cinema: manipolare e giocare con le emozioni. E a questo gioco la maggior parte perde.