Maxime sta per abbandonare Montreal per trasferirsi il più lontano possibile: in Australia, dove conta di mantenersi facendo il cameriere in un bar. Il giovane uomo è circondato dagli amici di infanzia, un gruppo chiassoso e dissacrante che continua a volersi bene nel modo in cui lo fanno i bambini: giocando, ruzzolando, prendendosi a cazzotti. Intorno a lui non ci sono maschi adulti ma tante figure femminili, fra cui la madre alcolizzata e invelenita che lui conta di affidare a una guardiana in sua assenza dato che fino a quel momento, grazie alla latitanza di suo padre e suo fratello, è sempre stato il solo ad occuparsene.
Maxime ha un angioma sul viso che contiene in sé il disegno di una lacrima, primo indizio della sua differenza: un indizio incancellabile che gli impedisce di nascondersi. A nascondersi molto bene invece è il suo amico d’infanzia Matthias, figlio di un padre lontano che ha gli ha preparato un futuro di avvocato. La mamma di Matthias è affettuosa e (fin troppo) presente, così come la fidanzata. A turbare gli equilibri nella compagnia di amici è il filmino studentesco che Erika, la sorella di Marco, unico membro del gruppo apertamente gay, gira scegliendo per soggetti proprio Maxime e Matthias. Per il primo quella partecipazione è una scelta, per Matthias è invece la punizione per una scommessa persa. Ma il film accenderà i riflettori su entrambi, e sulla loro amicizia.
Xavier Dolan torna sui temi che costituiscono la sua poetica: la sessualità come ricerca identitaria e i legami amicali e famigliari. Tutto è raccontato con il consueto stile impaziente di un regista che ha girato il suo primo lungometraggio a 19 anni e non si è più fermato, con la fretta di rappresentare il (suo) mondo in maniera bulimica e impavida.
Dolan ha la capacità di calamitare a sé un affetto travolgente, e di amore travolgente racconta. Matthias e Maxime è un film sull’energia che muove il sole e le altre stelle, e più l’elastico si tende nel tentativo di combattere quel sentimento, più torna a colpirci in faccia, come uno sputo, come un telecomando tirato con rabbia perché non basta a controllare l’altro. Matthias, già pilotato a distanza dal padre, fa del suo meglio per sottrarsi ad un altro telecomando: quello che ha in mano Maxime, che non lo usa e aspetta perché, marchiato dalla nascita, ha imparato ad accettare il suo destino. Matthias invece cerca di adattarsi alla vita “normale” da famigliola felice che appare su un cartellone stradale sponsorizzato dalla Chiesa.
Intorno a loro il caos è grande e Dolan lo alimenta con accelerazioni, tagli veloci, musiche che oscillano fra un pop contagioso e un repertorio classico dal respiro melodrammatico. La tensione è ben gestita fino alla scena clou che si svolge nella cucina di una festa, con il geniale controcampo di un gruppo di amici che corre a mettere in salvo il bucato da un improvviso temporale. È quella la conclusione naturale di un film che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, perché è costruito interamente intorno al contenuto non visto del filmino amatoriale di Erika, e non può che concludersi con la sua reinterpretazione: tutto ha gravitato intorno a quel momento di verità che avrebbe dovuto iniziare una rivoluzione, e invece è rimasto nel non detto.
Invece il film va avanti perché Dolan non può fermarsi, deve continuare la sua sfida al cinema che l’ha preceduto (in particolare quello del suo connazionale Denys Arcand con le sue Invasioni barbariche) e insiste a dire la sua, ancora e ancora, con quella precipitosità linguistica che rende il personaggio di Maxime, interpretato dal regista-sceneggiatore canadese, leggermente balbuziente. C’è bisogno dell’energia di Dolan e della sua capacità di raccontare l’amore come non etichettabile, come cantava Bette Midler (qui interpretata da una voce maschile): che sia un fiume o un rasoio, che sia una dolorosa necessita’ o un fiore del quale siamo noi, purtroppo e per fortuna, i semi.