India Coloniale, 1912, il giovane matematico autodidatta Ramanujan (Dev Patel) decide di inviare a un illustre professore inglese, G.H. Hardy, le sue recenti scoperte. Fermo e ostinato nel suo lavoro, dopo l’invito di Hardy (un Jeremy Irons che riconferma il suo perenne stato di grazia) al rinomato Trinity College di Cambridge, Ramanujan parte per l’Inghilterra contro il volere della madre, lasciando la sua terra e il suo amore, la moglie Janaki.
L’uomo che vide l’infinito non è soltanto la storia di una mente geniale che supera le barriere della rigidità accademica, la sua fu una piccola e incisiva rivoluzione. Privo di metodo, il suo approccio alla matematica si distingueva dai canoni dell’ambiente del Trinity College e veniva considerato poco convenzionale. Ramanujan è istintivo, puro, privo di sovrastrutture accademiche, il suo criterio di indagine sembra avere più a che fare con il trascendente e con la spiritualità tipica del suo paese di origine, che con l’austerità del college inglese. Grazie alla guida del mentore e amico Hardy, un personaggio eccentrico e fuori dagli schemi, da un lato impara una certa metodologia che gli servirà per portare avanti il suo lavoro – le più volte citate “dimostrazioni”- dall’altro verrà accettato da un ambiente inizialmente molto ostile.
Il film di Michael Brown crea due linee narrative ponendo l’accento sulle due relazioni: quella tra Ramanujan e Hardy e quella tra Ramanujan e l’Inghilterra. La figura del suo maestro rappresenta proprio quell’anello di congiunzione tra i due mondi. Hardy è infatti un personaggio non conforme alla società del tempo, è un pacifista e un uomo moderno, antiaccademico e, non a caso, molto amico di Bertrand Russel. Sarà lui infatti a proporre come fellow Ramanujan, cercando non solo di far apprezzare da tutti l’importanza del suo lavoro ma anche iniziare un processo che esorti il paese colonizzatore a guardare il colonizzato come un suo pari.
Se con Hardy è facile costruire un rapporto egualitario che si trasformerà poi in una profonda amicizia, con il paese che lo sta ospitando Ramanujan deve faticare molto di più e servirsi di un tramite (un inglese) per farsi accettare. Il processo raccontato in questo film cela un sottotesto che rimanda al discorso coloniale ma lo accenna solo in parte e lo fa nel momento in cui si sofferma sugli sguardi e gli atteggiamenti avversi che gli inglesi rivolgono verso lo straniero. Ramanujan viene deriso per i propri abiti, chiamato straccione, picchiato da soldati dell’esercito, diventando il “diverso” su cui sfogarsi, nella cornice di un Paese distrutto e messo in ginocchio dalla guerra.
Il regista preferisce calcare la mano sui momenti più toccanti dando spazio a un’estetica artificiosa e manierata (un esempio può essere la scena di Janaki in penombra all’interno del tempio) e utilizzando anche musiche eccessivamente enfatiche, cercando così di porre l’attenzione sull’elemento melodrammatico. Le scoperte di Ramanujan contribuirono a creare la base per gli studi sulla teoria delle stringhe e dei buchi neri, la sua fu un’impresa verso l’infinito.