LEI MI PARLA ANCORA

UN FILM NOSTALGICO PIENO DI TENEREZZA E IMBEVUTO DEL GARBO ANTICO DEL SUO FRAGILE PROTAGONISTA.
LEI MI PARLA ANCORA

Per 65 anni Nino ha amato la sua Rina, e non può smettere nemmeno adesso che lei se ne è andata: perché Rina gli parla ancora, e lui continua a parlare con lei, a porte chiuse, per non farsi sentire dai domestici e dai figli. Sarà proprio sua figlia ad inventarsi un modo per permettere al padre di parlare ancora “della Rina”, commissionando una raccolta di memorie ad un ghostwriter non altrettanto bravo a far pubblicare il suo pensiero originale. Dopo un’iniziale diffidenza Nino si aprirà allo scrittore e insieme ritracceranno la grande storia d’amore fra due coniugi che si sono creduti immortali in virtù del “gran bene che si sono sempre voluti”.

Pupi Avati ha girato Lei mi parla ancora, basato sul romanzo autobiografico di Giuseppe Sgarbi (il padre di Vittorio ed Elisabetta), in piena pandemia, e ha fatto di necessità virtù: certi vuoti attorno agli attori fanno il paio con l’esistenza di Nino dopo la morte della moglie, improvvisamente svuotata di senso; e dentro la storia che racconta si sente l’eco dello strazio di tanti coniugi anziani che non hanno potuto darsi l’ultimo saluto, il che ha reso ancora più difficile “accettare la mancanza dell’altro”.

Come ogni artista, Avati ha imbevuto la sua storia di contemporaneità pur raccontando un passato del quale lui stesso sembra avere una disperata nostalgia molto ben incarnata da Renato Pozzetto, che in un casting controintuitivo come molti ne ha fatti Avati (da Massimo Boldi in Festival a Christian De Sica ne Il figlio più piccolo a Serena Grandi, che compare anche in Lei mi parla ancora, in Una sconfinata giovinezza) incarna benissimo un uomo con “una conoscenza ottocentesca della vita”, riservato ma empatico, chiuso dentro un “magazzino vita” pieno di cose lì “per sempre”, tracimante ricordi (ora non più) condivisi.

Anche il resto del cast, da Fabrizio Gifuni nei panni del ghostwriter a Chiara Caselli in quelli della figlia a Lino Musella e Isabella Ragonese (Nino e Rina da giovani), è a servizio della storia, e sono tanti i cammei degni di nota, in primis quelli di Stefania Sandrelli (Rina anziana) e Alessandro Haber (il fratello di Rina), che condividono implicitamente con Avati “un assunto cinematografico comune”.

Più problematica (al di là di qualche sporcatura nel doppiaggio e della incongruenza degli accenti regionali) è la divisione dei “pesi” in sceneggiatura, cofirmata da Pupi Avati e da suo figlio Tommaso: la prima mezz’ora infatti è dedicata al presente e alle reciproche esitazioni di Nino e lo scrittore ad imbarcarsi nell’avventura di raccontare una vita intera. Poi però quella vita è ricostruita in fretta, scegliendo sì gli episodi salienti (come il ghostwriter sa che è necessario fare), ma dedicando ad ognuno un tempo troppo breve rispetto alla corposità della fase “espositiva” iniziale.

Si vorrebbe un maggior equilibrio narrativo, perché mentre la parte iniziale e la chiusa straziante sono efficacissimi vorremmo sapere molto, molto di più su quei due coniugi così profondamente innamorati. Ma la dilatazione e comprensione arbitraria del tempo è un privilegio che Avati si concede, dalla prospettiva pluridecennale della sua età e della sua produzione cinematografica. “Non ci sono cose meno belle, da non scrivere”, afferma l’ottantenne Nino allo scrittore, incapace di scegliere fra gli episodi della sua vita con Rina.

E allora si vorrebbe che Lei mi parla ancora avesse un andamento da Jazz band, con lo spazio necessario per dipanarsi meglio seguendo il suo ritmo interno: qui sincopato, là disteso. L’attenersi alla misura aurea dell’ora e mezzo (decisione quasi sempre condivisibile) ha invece comportato scelte più radicali e punitive. Ma di questo film doloroso e nostalgico, pieno di grazia e di tenerezza, restano dentro il garbo antico del suo protagonista e la fragilità esposta di un Renato Pozzetto che dichiara la sua paura nel continuare a vivere “senza”. Non si può non voler bene a Nino (e a Renato), così come non si può non commuoversi davanti alla delicatezza con cui Avati ricorda la sua giovinezza.

Infine non si può non apprezzare un cinema che cita Bergman e Pavese, Leopardi e PascoliCarver e Ariosto, senza doversi mai giustificare. E quel magone a stento trattenuto fa parte di tutti noi, soprattutto in questo momento di scomparse e smarrimenti: il perdersi dentro la scarnebbia della Bassa Padana per sentire la “nostalgia degli abbracci”.

LEI MI PARLA ANCORA
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