Modesta cresce nella campagna siciliana insieme alla madre, che detesta la sua indole ribelle e le preferisce la sorella disabile. Quando suo padre, da tempo assente, ricompare è per abusare di lei e del suo immenso bisogno di affetto. E Modesta si vendica, mandando in cenere il mondo in cui è cresciuta. Nel convento per figlie dell’aristocrazia siciliana dove viene accolta diventa la favorita della madre superiora Eleonora, di cui si innamora anche in virtù di quella fame atavica di attenzioni. Ma l’idillio non durerà a lungo e Modesta, ormai una giovane donna, si ritrova nella casa di una principessa del Nord Italia capricciosa ed esigente, e si innamora di nuovo: di una sua coetanea, di un autista, di un “gabellotto”. Ognuno di questi incontri è un passo avanti nel suo percorso di autoconsapevolezza e determinazione a rubare la parte di gioia che le spetta, senza provare quel senso di colpa e di vergogna che le hanno imposto fin dalla nascita, in quanto femmina della specie.
Trasformare un romanzo fluviale e debordante come “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza in una miniserie è stato un azzardo e un atto di amore da parte di Valeria Golino e del suo team di sceneggiatori: oltre a lei, Luca Infascelli, Francesca Marciano, Valia Santella e Stefano Sardo.
E buttare il cuore oltre l’ostacolo ha dato i suoi frutti, perché il romanzo di Sapienza secondo Golino è un arazzo complesso e avvincente, un viaggio “dall’orrore alla gioia”, dall’estasi mistica al piacere terreno. Al centro c’è un’eroina sui generis, un’opportunista capace di macchiarsi dei peggiori delitti, una sorta di Tom Ripley pronta a rimuovere dal suo percorso tutto ciò che diventa un ostacolo al compimento di se stessa, senza apologie e senza remore, rivendicando anche l’odio come motore proattivo.
La confezione della serie, forte di una squadra che vede Viola Prestieri alla produzione, Fabio Cianchetti alla fotografia e Giogiò Franchini al montaggio, è impeccabile e infinitamente accattivante, ha un afflato pittorico e un’attenzione al dettaglio d’epoca (le scenografie sono di Luca Merlini, i magnifici costumi di Rita Barbieri).
Ed è la mano sicura della regista a guidare il dream team, compreso l’autore delle musiche fortemente evocative (sebbene a volte invadenti) Tóti Guðnason. Golino si muove su un terreno di messinscena classico, a tratti convenzionale, ma lo arricchisce di Easter egg e ne approfondisce le ombre, che vanno a rimpiazzare il caos disordinato e incontenibile della scrittura di Goliarda Sapienza, del quale si sente un po’ la mancanza, in questo insieme controllato e corretto. Ma Golino estrae dal magma narrativo di Sapienza una figurina determinata e inscalfibile, un agente del caos (per gli altri) cui dà corpo e soprattutto sguardo (reso metallico dai costanti riflessi di luce all’interno delle iridi brune) l’ottima Tecla Insolia, onnipresente senza stancare lo spettatore.
Ma l’abilità della regista sta soprattutto nell’indirizzare le performance di un cast di attori eccezionale, potenziando al massimo l’ambiguità di Jasmine Trinca nei panni della badessa Eleonora e la petulanza dittatoriale di una monumentale Valeria Bruni Tedeschi nel personaggio della principessa Brandiforti. Fanno loro corona molti ruoli maschili memorabili (in questa storia che ha le donne al centro), soprattutto il giardiniere del convento (Giovanni Calcagno) e l’irresistibile gabellotto (Guido Caprino). Il migliore è Lollo Franco nel ruolo tragicomico del maggiordomo Antonio. E fra le interpreti femminili sono molto efficaci Alma Noce (Beatrice) e Alessia Debandi (Ilaria). I dialoghi non sono mai frasi ad effetto o gesta eclatanti e la regia non indugia, non sottolinea, sceglie di “buttare via” quelle che in uno sceneggiato tradizionale diventerebbero scene madri.
La Modesta di Golino è una ragazza selvaggia che si muove a quattro zampe e legge Baudelaire, una creatura vorace di conoscenza e di piacere, non vuole Dio ma la vita, ama sapere e sedurre, e fa fiorire chiunque incontra per poi abbandonare ognuno al suo destino, qualora diverga dal proprio. È un personaggio intimamente letterario che rimanda a Jane Eyre come a Barbablù, e che Golino rende accessibile al grande pubblico, senza inutili vezzi intellettuali.
Modesta è un vettore di libertà, Maudit ma mai autodistruttiva, concentrata come una freccia sulla realizzazione di sé a dispetto delle sue circostanze, anzi, facendole fruttare tutte, come in un fuiletton vecchio stile: è Angelica la marchesa degli angeli senza pretese di virtù; è una Giovanna d’Arco che invece di ardere sul rogo brucia tutto quello che si frappone fra lei e il suo futuro luminoso – tanto è il mondo stesso ad essere in fiamme. E sa mantenere anche una misura di carità, in un universo pieno di disabilità fisiche ed emotive che per lei non sono mai una scusa, ma possono essere un’opportunità di emancipazione. Ed è ipermoderna nella concezione dell’amore, quando dice che “si può amare un uomo, una donna, un cavallo”.
Se della scrittura di Sapienza non ha l’anarchica sgrammaticatura o l’invenzione linguistica, Golino ne rivendica le ombre che ci vengono dietro e le infinite rifrazioni, scompone e ricompone per immagini ciò che in letteratura resta disarticolato, e si concede piccoli passi nel delirio solo nei riflessi, nelle inquadrature da finestre e finestrini (memorabile quella del giardiniere mentre Modesta si allontana dal convento), dietro a tende avvolgenti.
L’arte della gioia è una fiaba iniziatica dominata da più di una strega, ed è anche il resoconto di un secolo (Modesta nasce il primo giorno del ‘900) pieno di contraddizioni e di scoperte. Golino, come Modesta, unisce l’utile e il dilettevole, facendo della sua volontà di regista il prodotto del suo desiderio di autrice. E l’ironia della regista-sceneggiatrice, come la risata di Modesta, è il loro gesto di suprema rivendicazione femminile.