22 giugno 1983 Emanuela Orlandi, figlia quindicenne di un messo pontificio, scompare dando inizio a un’indagine che durerà per decenni. Con l’avvento di Mafia Capitale una giornalista di origine italiana si mette sulle sue tracce, contattando la collega che ha raccolto la testimonianza di Sabrina Minardi, ex amante di Enrico “Renatino” De Pedis, secondo la Minardi direttamente coinvolto nella scomparsa della Orlandi. Ma dove si nasconde la verità?
Roberto Faenza mette insieme una ricostruzione minuziosa e dettagliata degli eventi, possibile grazie ad un encomiabile lavoro di ricerca e all’utilizzo di materiali d’archivio che riportano alla memoria momenti cruciali della storia nazionale e i complessi rapporti con il Vaticano. Ma al di là delle evidenti buone intenzioni del regista, anche autore del soggetto insieme a Pier Giuseppe Murgia e Raffaella Notariale (interpretata nel film da Valentina Lodovini), La verità sta in cielo ha l’effetto di uno tsunami di informazioni che travolge lo spettatore senza offrirgli una chiave di lettura utile a ritornare a galla.
La lezione di Leonardo Sciascia, forse il più abile testimone delle pieghe oscure del carattere italiano, è quella che ogni storia, anche la più complicata, può diventare semplice se si è in grado di evidenziare le dinamiche che, in filigrana, sottendono la vicenda, e la logica (anche perversa) che guida le azioni di pochi ai danni di molti. Sempre Sciascia, ma anche pochi illuminati autori cinematografici come Elio Petri e Marco Bellocchio, sono stati in grado di fare leva su quella valenza metafisica della politica italiana così universalmente riconoscibile che avrebbe potuto elevare anche La verità sta in cielo.
La compilazione e l’impilamento delle notizie che la cronaca ci ha via via raccontato non equivalgono invece ad una rilettura artistica di ciò che è accaduto, a maggior ragione quando la narrazione è appesantita da dialoghi letterari che sottolineano in maniera didascalica il significato di ciascuna conversazione senza restituirne il senso profondo. Gli attori si sforzano di iniettare un po’ di spontaneità in questi scambi di informazioni innaturali senza riuscire a ribellarsi ad uno schema narrativo che finisce per occultare la verità dietro un eccesso di retorica. Un film che ha l’ambizione (nobile e giusta) di raccontare una pagina oscura della storia d’Italia non può fare l’effetto finale di una schermata di Wikipedia.
Faenza intuisce ciò che La verità sta in cielo avrebbe potuto essere nei brevi istanti in cui fa coesistere passato e presente, percependo come la rottura della sequenza cronologica degli eventi apra spazio a quella sovrapposizione di personaggi e accadimenti che rivela la Storia come reiterazione di archetipi e compresenza di fantasmi, quelli dei molti morti che chiedono ancora oggi giustizia in questa Italia “Paese di molti misteri, ma di nessun segreto”. Il regista avrebbe potuto rendere quei corpi che scompaiono e ricompaiono, quei cadaveri trafugati o seppelliti nel cemento, metaforici dell’eterno ritorno di certe pulsioni umane e certi meccanismi della storia, e invece sembra avvalersene soprattutto per coltivare quell’estetica pulp che ha fatto la fortuna di Romanzo criminale e Suburra (per non scomodare Scorsese e Tarantino). Le continue frecciate al modo italiano di fare (o non fare) le cose in realtà non illuminano mai le motivazioni dietro a comportamenti che, pur aberranti, hanno una loro spiegazione. Shakespeare e Machiavelli, entrambi citati nel film, sapevano raccontare i giochi di potere soprattutto nella loro valenza simbolica, perché sapevano tagliare attraverso il materiale a loro disposizione per arrivare all’essenza del “raggionamento”.
La verità sta in cielo
“Una ricostruzione minuziosa e dettagliata, possibile grazie ad un encomiabile lavoro di ricerca e a materiali d'archivio„