Girgenti, 1920. Nofrio e Bastiano sono becchini, ma anche attori “dilettanti professionisti” intenti a mettere in scena la tragicommedia “La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu”. L’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga riporta Luigi Pirandello alla sua città natale, e la morte della balia del drammaturgo favorisce il suo incontro con i due becchini. Il Maestro è in crisi creativa, e osservando di nascosto le prove della compagnia amatoriale di Nofrio e Bastiano trae ispirazione per uno dei suoi lavori più importanti, “Sei personaggi in cerca d’autore”. Ciò che succede sul palco si mescola con ciò che succede dietro le quinte e Pirandello, silenzioso testimone della prima del duo strampalato, raccoglierà spunti per il debutto della sua nuova creazione, al quale Nofrio e Bastiano verranno invitati.
Roberto Andò, regista e sceneggiatore insieme a Massimo Gaudioso (anche coautore del soggetto) e Ugo Chiti, intesse un arazzo che intreccia linee narrative e ricordi letterari ma anche metacinematografici.
Nofrio e Bastiano rimandano all’Amleto scespiriano, e la scelta di Ficarra e Picone nei ruoli dei due becchini a quella di Franco e Ciccio nell’episodio “La giara” (citato visivamente da una locandina in La stranezza) nel Kaos dei fratelli Taviani. E la sceneggiatura lavora in levare, alludendo senza mai diventare didascalica (magistrale il contenimento nel non citare “Questa sera si recita a soggetto”).
Anche il processo creativo viene raccontato come una tessitura fra vita e teatro, un continuo reciproco nutrimento che si arricchisce della profondità psicologica (o psicoanalitica) pirandelliana derivata all’autore anche da esperienze personali (la pazzia della moglie), dall’affinità elettiva con il coevo Sigmund Freud, e da quel tormento interiore che l’autore siciliano definiva “la stranezza”. Toni Servillo fa sua quell’afflizione nascosta, abbinata alla mitezza garbata che caratterizzava Pirandello, e ritrae il drammaturgo come un’ombra che scivola dietro le quinte. La sua interpretazione è speculare e contraria a quella in Qui rido io, film fratello a La stranezza: tanto là era animale da palcoscenico, sopra le righe anche nel privato, quanto qui è figura defilata e silente, disposta a lasciare i riflettori al prossimo, con educazione antica.
Per contro Valentino Picone e soprattutto Salvo Ficarra sono maschere estremamente efficaci nella loro esagerazione drammaturgica, e il loro casting è un vero colpo di genio: due guitti che non distinguono finzione e realtà, e per i quali il confine fra tragico e comico è costantemente superabile.
La stranezza alterna la cupezza e i fantasmi dell’autore con la luminosità delle scene e la pirotecnia performativa degli attori, traducendo in immagini il lavoro di squadra fra chi crea letteratura – non solo Pirandello, ma anche Giovanni Verga (nel cammeo di Renato Carpentieri) e Leonardo Sciascia, cui il film è dedicato – e chi la porta in scena dandole carne, sangue e temperamento. La ponderata gravitas di Toni Servillo è efficacemente controbilanciata dalla leggerezza mercuriale di Ficarra e Picone, e non stupisce la generosità con cui molti attori di primo piano – da Luigi Lo Cascio a Donatella Finocchiaro, da Galatea Ranzi a Fausto Russo Alesi – si siano prestati a farsi pennellata nell’affresco ampio del regista.
La messa in scena di Andò è filologica nel ricostruire tanto la polvere e il nitore, il colore e il caos allegro della rappresentazione teatrale, quanto l’inquietudine nascosta di quel primo Novecento in cui artisti come Pirandello avrebbero “messo una bomba sotto la costruzione della realtà”, appena prima che venisse ricodificata nella finzione del Fascismo. Le scenografie di Giada Calabria, i costumi di Maria Rita Barbera e la fotografia di Maurizio Calvesi lavorano di fino e di concerto per ricostruire quel piccolo mondo, antico eppure anticipatore della più radicale modernità; il montaggio fluido di Esmeralda Calabria favorisce la transizione fra un dietro e un davanti, un prima e un dopo; e le musiche di Michele Braga ed Emanuele Bossi sostengono magistralmente la narrazione, gonfie di emozione ma pronte a riecheggiare la piega ironica pirandelliana. Anche il dialetto siciliano diventa strumento musicale per raccontare una società e una natura umana vertiginosamente stratificate.
La stranezza ci ricorda quanto il teatro di Pirandello, che ora consideriamo classico, fosse avant-garde, dirompente e trasgressivo, e fa presente la difficoltà di un autore, pur celebrato nel suo tempo, nell’essere accettato e compreso. Inoltre riconosce agli artisti la capacità di “fare quello che va fatto”, donando la propria visione e la propria interpretazione a rischio del rifiuto. La stranezza è un dono di gratitudine alla creazione teatrale in tutte le sue forme, concettuali e performative, e alla sua eredità pronta a sedimentarsi nel nostro inconscio collettivo.
Roberto Andò è eccezionale direttore d’orchestra di questa “storia semplice” che non indulge nel melodramma né scollina nella farsa, e trova la sintesi di tutti gli elementi in scena: miseria e nobiltà, storia e Storia, buio e luce, ispirazione e pantomima. La stranezza restituisce “dignità e rispetto” agli artisti, anche quelli improvvisati, riconoscendo la natura tragicomica di una vita “piena di assurdità” in cui “vogliamo tutti essere ascoltati, risolti, messi in scena”. E il gioco del teatro resta un modo per dribblare la morte, nella consapevolezza che solo i personaggi sopravviveranno ai loro autori e interpreti.