Oklahoma, primi anni Venti. Ernest Burkhart ha combattuto in guerra e torna nella nativa Fairfax in cerca di fortuna. Suo zio William Hale gli ha promesso un lavoro all’interno della Nazione Indiana degli Osage, che sono diventati improvvisamente ricchi perché sul terreno “risarcito” loro dagli yankee – perché sembrava infruttuoso – è comparso il petrolio in grandi quantità. Su consiglio dello zio, Ernest sposa una donna nativo-americana, Molly, in parte perché spera di appropriarsi delle sue ricchezze, in parte perché ne è davvero innamorato.
Nella Nazione Indiana gli Osage si stanno ammalando e muoiono uno dietro l’altro di una strana “consunzione”, o di quella malinconia che i conquistatori sono ben contenti di far loro affogare nell’alcool. Quelle morti sono strategiche e stanno avvenendo anche nella famiglia di Molly. E la cittadina di Fairfax è piena di disperati pronti a commettere omicidi, furti e rapine, sapendo che la legge chiuderà un occhio su chi prende di mira i “pellerossa”.
Killers of the Flower Moon, ispirato al romanzo omonimo di David Grann, stana il peccato originale degli Stati Uniti: quella avidità e prepotenza di cui i pionieri si autoassolvono raccontandosi un mare di bugie.
In questo senso va alle radici profonde dell’ethos (o della mancanza di etica) dell’epopea di conquista, generatrice di quel comportamento criminale che avrebbe in seguito preso varie forme, dal gangsterismo alla mafia ai crimini dell’alta finanza. Ciò accomuna il film di Martin Scorsese, che ne è regista e sceneggiatore insieme ad Eric Roth, ad altre “origin story” come Il petroliere che espongono senza mezzi termini il cinismo opportunista dell’America, ma lo apparenta anche a Casinò, che raccontava il gioco d’azzardo come istituzionalizzazione dell’avidità. Ma per restare nel mondo di Scorsese Killers of the Flower Moon rimanda oltretutto al recente Silence, che raccontava un altro annientamento di una “civiltà” conquistatrice su una indigena.
Rispetto al best seller cui è ispirato, Killers of the Flower Moon cambia il protagonista: non più un agente di quel Bureau of Investigation che va ad indagare sulle morti in Oklahoma e che sarebbe diventato il nucleo fondante dell’FBI, ma Ernest Burkhart, che “ama i soldi quanto sua moglie” e che viene manipolato dallo zio per venalità e ignoranza, mantenendo una perversa misura di sincerità contenuta nel suo stesso nome (“Earnest” significa “onesto” o “autentico”). Se Burkhart è la faccia parzialmente inconsapevole del Male, William Hale è il Male che giustifica se stesso sulla base di quel senso di innata superiorità che gli fa considerare inevitabile l’eliminazione di una comunità diversa dalla propria. La sua cattiva coscienza è più evidente, e agghiacciante, nei momenti in cui dichiara di amare il popolo Osage e di volersi scusare per “i tanti problemi che vi abbiamo causato”, così come è agghiacciante la spietatezza prosaica con cui dichiara che per gli indiani d’America “il tempo è passato”, rendendoli di fatto dispensabili.
Killers of the Flower Moon è un grande affresco che, prendendo le mosse da una serie di delitti, si libera della detection per illuminare le dinamiche dietro i comportamenti criminali, e il lato oscuro dell’animo umano che li razionalizza come “affari”. Ma il senso di impunità e di autolegittimazione non è solo quello dei protagonisti di questa storia: è quello che ha consentito ad ogni sistema di potere di fare il bello e il cattivo tempo ritenendosi dalla parte giusta della Storia, e nel caso specifico è una critica sostanziale del sistema nordamericano.
La regia di Scorsese incalza i personaggi mentre la fotografia di Rodrigo Prieto li illumina di una luce allo stesso tempo calda e crudele; il montaggio dell’immancabile Thelma Schoonmaker collega inevitabilmente cause a conseguenze e il commento musicale di Robbie Robertson incorpora le sonorità nativo americane anche nei momenti più rock.
Leonardo DiCaprio è un Ernest inquietante e patetico nella sua grettezza e insipienza, e il suo primo sguardo è quello di un reietto in cerca di riscatto, animato dal rancore per non essere mai stato ritenuto all’altezza; l’attrice nativo-americana Lily Gladstone è un’oasi di quiete all’interno della frenesia ingorda degli uomini (bianchi) che la circondano. Su tutti giganteggia Robert De Niro, che nel ruolo di Bill “il Re” Hale fa confluire tante sue caratterizzazioni precedenti, da Al Capone a Max Cady, regalandogli un’ambiguità diabolica e una bonomia terrificante nella sua totale mancanza di reale empatia. E l’accoppiata De Niro-DiCaprio, a 30 anni di distanza dalla loro apparizione insieme in Voglia di ricominciare, dà la dimensione di quanto cinema sia passato per le mani di questi due attori, spesso sotto la cinepresa di Scorsese.
Killers of the Flower Moon è la storia della prevaricazione di un popolo su un altro, inflitta con quel senso di titolarità che fa accettare tanto ai vincitori quanto ai vinti lo stato delle cose come movimento necessario della Storia. Ed è al modo in cui queste prevaricazioni sono state per molto tempo ignorate, o trasformate in una narrazione “crime” invece che in una presa di coscienza collettiva, che il film di Scorsese vuole rendere giustizia.