JURASSIC WORLD – IL DOMINIO

Un territorio audace e inesplorato, dinosauri mai visti, azione vertiginosa e nuovi sorprendenti effetti visivi
JURASSIC WORLD – IL DOMINIO

Quattro anni dopo la distruzione dell’Isola Nublar i dinosauri si aggirano nel mondo degli uomini, adattandosi a condizioni ambientali inedite. La multinazionale Biosyn si occupa di raccogliere esemplari allo stato brado per confinarli in un’area nelle Dolomiti, dove studiare nuove possibilità di cura delle malattie attraverso la manipolazione del DNA. Intanto una moltitudine di locuste geneticamente modificate distrugge i raccolti negli Stati Uniti: le origini di queste nuove forme di vita sono sconosciute.

Il prologo sotto forma di speciale televisivo permette di riassumere gli eventi dei titoli precedenti di Jurassic World e di introdurre all’attesa congiunzione dei cast di Jurassic Park e Jurassic World, atteso momento culminante di quello che sembra essere il capitolo finale e definitivo della saga giurassica.

Regia affidata nuovamente a Colin Trevorrow, dopo la parentesi horror e personale di Bayona, che ha l’onere di guidare una sceneggiatura monstre che ha il compito di soddisfare i fan, congedarsi con un episodio all’altezza e riservare lo spazio dovuto ai molti personaggi vecchi e nuovi che la popolano.

È forse inevitabile che questo sfoci in more of the same, in tutte le salse possibili: reiterazione delle sequenze più amate e degli scontri che hanno un vincitore già scritto. L’impossibilità di fornire un sequel all’altezza dell’originale dal punto di vista emozionale e iconico si traduce in un processo che assomiglia alla clonazione, secondo l’ipertrofica applicazione del concetto del mainstream cinematografico attuale. E in questo senso è indicativo che l’unico elemento di reale innovazione e di simbolica metafora sul franchise stesso sia costituito da una sorta di partenogenesi, attuata tanto dai dinosauri in natura che dagli scienziati in laboratorio.

L’imperativo è replicare, anche senza bisogno di una cooperazione per farlo. Stupirsi quindi se il T-Rex alla fine vincerà l’ennesimo scontro tra predatori apicali, dopo che questo è avvenuto in tutti o quasi gli episodi della saga, è impossibile, almeno quanto immaginare che non ci sia un’inquadratura thrilling con un dinosauro inquadrato in un cerchio, atta a richiamare visivamente il brand che già fu di Jurassic Park.

Brandizzazione e reiterazione sono le parole d’ordine di un gargantuesco episodio-summa, sulle cui spalle gravano esigenze di fan service così ingombranti da irrigidire la sceneggiatura fino a renderla prossima a quella prodotta da un algoritmo.

Immancabili le sequenze di Owen che ammaestra i Velociraptor e quelle in cui omaggia il suo “antenato” Harrison Ford, tanto nell’incarnazione Indiana Jones che in quella Han Solo (con tanto di triangolazione dell’equipaggio che riproduce le posizioni di Han, Leia e Chewbacca sul Millennium Falcon).

Altrettanto inevitabili i brevi siparietti romantici, atti a riaggiustare nella maniera più rassicurante possibile i fili sospesi: Alan Grant (Sam Neill) e Ellie Sattler (Laura Dern) potranno ravvivare la fiamma, Ian Malcolm (Jeff Goldblum) restare un ironico seduttore (ma dallo humour sempre più spuntato), Owen Grady (Chris Pratt) e Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) ricostituire un’improbabile unità familiare nel segno dei veri valori americani. Vedere nella rappresentazione della Biosyn, capeggiata da un CEO che è più parodia (involontaria) di Steve Jobs di quella (effettiva e conclamata) di Mark Rylance in Don’t Look Up, una qualche forma di vaga invettiva contro l’alterazione genetica della natura assomiglia molto a credere che ci siano una morale e un’etica in quella che appare più come una congerie di aggiustamenti in corsa e compromessi da rispettare.

A guidare le esigenze della sceneggiatura spesso sembra più l’equilibrio di rappresentazione delle minoranze in gioco – tutti i personaggi afroamericani o non binari sono inequivocabilmente buoni, tutti i malvagi sono inequivocabilmente caucasici – che una qualche forma di critica sociale. Se questa anestesia di ogni elemento problematico possa giovare all’accettazione del pubblico americano è questione su cui solo il botteghino potrà rispondere.

Di certo, nonostante il ritmo indiavolato e gli effetti digitali strabilianti, Jurassic World – Il dominio non provoca neanche un sobbalzo dove Jurassic Park, di trent’anni prima, terrorizza ancor oggi. Il che significa qualcosa a prescindere da tutti i possibili calcoli e indagini di mercato della Universal, probabilmente destinata ad archiviare la saga giurassica, come già prematuramente fatto per l’improbabile franchise “Dark Universe”. In sostanza, cercasi nuove idee disperatamente.

JURASSIC WORLD – IL DOMINIO
PROGRAMMAZIONE
TERMINATA