Indiana Jones ha appeso il cappello e da qualche anno insegna archeologia all’università di New York. In attesa di un divorzio, che pesa come il lutto del figlio, il professor Jones si trascina al lavoro e dentro una vita ordinaria ‘scossa’ soltanto dagli schiamazzi dei vicini. Alla vigilia della conquista della Luna, riceve la visita di Helena Shaw, figlia di un vecchio amico ‘ucciso’ dalla sua ossessione: la macchina di Anticitera, congegno meccanico concepito da Archimede per trovare buchi temporali. La metà del quadrante riposa da anni negli archivi di Indiana Jones, dopo averlo sottratto ai nazisti sconfitti nel 1944. Tornata dal suo passato, Helena vorrebbe recuperare il curioso reperto per venderlo a un’asta in Marocco. A pedinarla, bramando lo stesso bene, è Jürgen Voller, ex nazista che ha partecipato al progetto Apollo 11 sotto falso nome. (Ab)battuto anni prima da Indiana Jones su un treno in corsa, vuole rintracciare le due parti del quadrante e viaggiare nel tempo cambiando il corso della Storia. Una sparatoria in piena ‘parata lunare’ avvia la ricerca del prezioso oggetto. Tra Marocco e Sicilia, nazisti e antichi romani, l’avventura è servita.
Avevamo davvero bisogno di ritrovare Indiana Jones, eroe nato al cinema più di quarant’anni fa, in un’epoca in cui invenzione e innovazione erano ancora i valori cardini del blockbuster americano? La leggenda aveva ancora sufficiente appeal per giustificare il quinto colpo di frusta? La risposta è felicemente affermativa, nessuna riserva.
Indiana Jones e il quadrante del destino comincia con un inseguimento in treno rocambolesco, un esplosivo prologo-flashback ambientato nel 1944. Indy, un Harrison Ford ringiovanito digitalmente, il risultato non è ancora perfetto ma resta indubbiamente stupefacente, scippa tra mille acrobazie il ‘quadrante’ del titolo agli scagnozzi di Hitler. Il lungo incipit piazza il MacGuffin del film, un curioso ordigno inventato da Archimede e scomparso da 2000 anni, e introduce il grande villain, il nazista Jürgen Voller (Mads Mikkelsen, come un pesce nell’acqua).
Con un salto temporale, ritroviamo Indy a New York, invecchiato nel suo letargo rassegnato, una vecchia reliquia forse in attesa che qualcosa o qualcuno lo spinga a rispolverare frusta e cappello. Il preludio bellico e chiassoso è in netto contrasto con quello che segue, la quiete di un appartamento newyorkese colmo di vecchie fotografie e diffuso dell’inevitabile malinconia associata al mito.
James Mangold, abile a insinuare l’emozione nella meccanica dei suoi blockbuster, prelude un elogio alla fatica e alla chance fuori tempo massimo, l’ultima corsa per questo eroe in pensione che vedremo due sequenze dopo cavalcare (nelle gallerie della metropolitana), sparare, prendere a pugni i nazisti, fuggire, inseguire, decifrare antichi codici e attraversare tutti i confini, compresi quelli temporali.
Perché Indiana Jones e il quadrante del destino è un film di epoche al plurale, al quadrato, al cubo (1944, 1969, 415 A.C. …) che rinnova i legami con l’Indy che abbiamo sempre amato. Il crepuscolo, del resto, è da sempre il dominio di Mangold (Logan), che conduce il suo divertissement senza deragliare e rimanendo fedele alla saga, al nostro attaccamento alla saga. L’ossessione della sua avventura è soprattutto il tempo che passa, i rimpianti, la decadenza, quella del suo eroe e quella del suo attore che assume i suoi anni e conserva (sicuramente in un quaderno) la chiave del suo mistero, uno charme disinvolto e un talento innato per mettersi nei guai con quell’aria cool e quella beata sfortuna che lo getta costantemente in pasto ad animali ripugnanti, dentro voragini spalancate, stretto tra furia divina e abominevoli nazisti.
Sprezzatura e cicatrice marcano ancora il bel volto assediato dal tempo ma senza farne un dramma. Harrison Ford affronta la vecchiaia del (suo) mito a torso nudo e con una manciata di sequenze in cui dimostra che se ne infischia (francamente) di (ri)giocare l’eroe falsamente affascinante, lasciandosi doppiare su una parete da Phoebe Waller-Bridge in modalità giovinezza ostentata. Una dolorosa arrampicata che conta i colpi di pistola e della vita, prima di quel momento di autentica meraviglia finale che è il terzo atto.
Non diremo niente se non che segue il ‘principio di Archimede’ e sposta il corpo mitico verso l’alto e verso il cinema dei ‘bei giorni’. Verso una sorpresa, nel senso vecchio e hollywoodiano. Aggrappati alle poltrone, prima che sia troppo tardi, godiamo di quell’archeologia viva che affronta la Storia di petto.
Mai ‘parco a tema’, Indiana Jones e il quadrante del destino trova la sua nota più commovente in Harrison Ford, immerso in un bagno di digitale giovinezza e poi lanciato all’inseguimento di tutte le età della sua vita. È lui l’inestimabile reliquia di questo atto finale, la quadratura del cerchio, il ‘quadrante’ di un destino comune, custodito nel cuore e negli occhi perché non passi. La spinta archimedea è pari alle lacrime che versiamo.