IL RICHIAMO DELLA FORESTA

UN ADATTAMENTO CHE RAFFORZA L'IMMAGINE DI BUCK COME EROE LETTERARIO PER ECCELLENZA
IL RICHIAMO DELLA FORESTA

In California, a fine ‘800, il grosso cane Buck vive nella fattoria di un giudice. Rapito per essere venduto come cane da slitta per i cercatori d’oro del Klondike, Buck si ritrova in Alaska, rinchiuso in gabbia e addestrato alla legge del bastone. Acquistato da un francese che consegna la posta negli avamposti dei cercatori d’oro, entra in una muta di cani e in poco tempo, coraggioso e possente, ne diventa il capo. Quando però il postino perde il lavoro, viene acquistato da un feroce viaggiatore in cerca di fortuna. Salvato dall’eremita John Thornton, Buck trova finalmente un amico con il quale spingersi nelle profondità delle terre selvagge. Qui sentirà sempre più forte Il richiamo della foresta e si unirà a un branco di lupi, senza però dimenticherà l’affetto per il suo anziano padrone.

Nuovo adattamento dell’omonimo romanzo di Jack London, che accentua l’elemento di formazione presente in parte nel testo originale e trasforma il cane Buck in un simbolo di fierezza e riconoscenza.

Prodotto dalla Twentieth Century Fox, da poco acquisita dalla Disney, scritto da Michael Green (autore di script ben più complessi, come quello di Blade Runner 2049) e diretto da Chris Sanders, già regista di Dragon Trainer e qui decisamente meno abile nel gestire il tema del rapporto fra uomo e animale, Il richiamo della foresta è il frutto di un’operazione prettamente commerciale: a suo modo efficace, inevitabilmente modesta.

L’adattamento del romanzo di London è improntato a una normalizzazione dei suoi passaggi più controversi: la violenza su Buck della «legge della zanna bianca e del bastone» è solamente accennata e mai mostrata; l’istinto animale del cane non è quasi mai anche un istinto di morte; il personaggio del postino volenteroso e ritardatario (interpretato da Omar Sy) è inventato e porta il racconto sui binari dell’avventura sentimentale; John Thornton non è un cercatore d’oro come tutti i maschi adulti dello Yukon a fine ‘800, ma un eremita che nel finale diventa un solitario idealista alla Thoreau al quale Harrison Ford cerca di dare la monumentalità tragica dei personaggi di London.

Soprattutto, Il richiamo della foresta a cui il cane mezzo lupo aderisce per natura non è nel film una metafora del darwinismo sociale caro al neonato capitalismo americano (secondo un’interpretazione diffusa dell’opera di London), ma una più ampia adesione a uno stato di natura nel quale predominano in forma disinteressata istinti e sentimenti come coraggio, affetto, riconoscenza, predominio. Una normalizzazione dei temi londoniani ribadita anche dalla rappresentazione da operetta del cattivo di turno (l’esploratore dandy interpretato da Dan Stevens), che ripropone l’opposizione manichea tra bene e male anche ai confini della civiltà.

Questa nuova versione di Il richiamo della foresta rafforza l’immagine di Buck in quanto eroe letterario per eccellenza, fiero, coraggioso, destinato a diventare il leader del proprio gruppo; eppure nella sua lotta per la sopravvivenza fra inverni rigidi e uomini malvagi non c’è nulla di drammatico ed epico, nulla della disumanizzazione di un’umanità più selvaggia del mondo animale.

Colpa non solo dell’operazione di riscrittura, ma anche della componente visiva del film, che ricorrendo a dosi massicce e non propriamente raffinate di CGI (per i movimenti più complessi del cane o per i momenti più spettacolari del racconto, tra laghi ghiacciati, valanghe e torrenti in piena) trasforma un immaginario saturo di fatica, dolore e animalità ferina in una superficie digitale inconsistente e innaturale

IL RICHIAMO DELLA FORESTA
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