IL PIÙ BEL SECOLO DELLA MIA VITA

LA COPPIA CASTELLITTO-LUNDINI È PERFETTAMENTE COMPLEMENTARE IN UN FILM CHE SA PRENDERE LE GIUSTE MISURE.
IL PIÙ BEL SECOLO DELLA MIA VITA

Gustavo è un centenario che vive in una casa di riposo gestita dalle suore, un centenario che non ha mai saputo la propria origine, visto che la donna che lo ha partorito non ha voluto riconoscerlo al momento della nascita. Con l’entrata in scena di Giovanni, un volontario della FAeGN, l’Associazione Nazionale Figli Adottivi e Genitori Naturali, forse le cose stanno per cambiare: in Italia c’è una legge che impedisce ai figli non riconosciuti, prima del centesimo anno di età, di avere accesso alle informazioni sulla donna che li ha messi al mondo. Giovanni la vuole cambiare, quella legge, e per questo convince Gustavo a tornare con lui a Roma, chiedere di scoprire da dove viene e ad una serata in suo onore fare pressione sul Ministro dell’Interno perché cambi questo problematico istituto. Inizia così il loro viaggio.

È un cinema di parole e situazioni, quello di Bardani, supportato dalla bella fotografia di Timoty Aliprandi e il brano-apripista di Brunori Sas.

Quanta genealogia di realtà c’è dietro Il più bel secolo della mia vita? La legge 184 del 1983 (poi rivista con la 149 del 2001), ad esempio, dove in quella singola linea dell’articolo 7 si stabilisce il concetto presente al centro del film, cioè che ai figli non riconosciuti è precluso l’accesso ai dati di chi li ha partoriti, e questo per la durata di un secolo; oppure le sentenze della Corte Europea, della Corte Costituzionale e della Cassazione, che a partire dal 2012 hanno più volte ricordato al governo italiano della necessità di intervenire sulla materia, cosa che si stava per fare con un disegno di legge passato alla Camera nel giugno del 2015, poi arenatosi come tutta la XVII Legislatura con lo scioglimento del Parlamento a marzo 2018; per non citare l’attuale vuoto normativo, dove a decidere caso per caso sono i singoli Tribunali per i Minorenni, a volte concedendo l’avvio della richiesta di riconoscimento e a volte no, perché non c’è nulla su cui basarsi.

E quanta genealogia c’è anche nella sfera finzionale, visto che il film arriva dopo uno spettacolo teatrale di cartellone e di successo, dallo stesso titolo, stavolta con il duo Giorgio Colangeli e Francesco Montanari in scena. Dietro c’erano, ci sono, sempre il regista Alessandro Bardani, che firma anche la sceneggiatura con Luigi Di Capua dei The Pills (a cui si aggiungono, a mo’ di solido puntello, Leonardo Fasoli e Maddalena Ravaglia), ma ancora più dietro c’è quella sorta di brodo primordiale che è stato Ce l’hai un minuto?, corto di Bardani con protagonisti ancora Colangeli e Montanari, una sorta di prova di messinscena, per saggiare pesi e contrappesi, di questo dialogo generazionale tra chi ha avuto un passato e chi avrà il futuro, entrambi persi dentro un senso di spaesamento che investe ogni cosa, ognuno, ovunque.

Insomma, ci arriva preparato e approntato, Bardani, alla versione filmica di Il più bel secolo della mia vita, e lo dimostra anche il fatto di aver saputo scegliere con occhio emotivo ed estetico i due protagonisti principali, qui Sergio Castellitto e Valerio Lundini: coppia dotata del giusto star power e perfettamente complementare, con da una parte il Metodo Castellitto per immergersi nella voce bassa ed espressività tutta sopra la cintola dell’ultracentenario Gustavo; e dall’altra la Maschera Lundini, solo mezze frasi e indecisione perenne perfette per il suo Giovanni.

E l’investitura attoriale si rivela ancora più importante visto il declivio preso per affrontate un tema così spigoloso da maneggiare, che tra “genitorialità naturale” e “genitorialità giuridica”, il rispetto della privacy per le donne che hanno deciso di mantenere l’anonimato e la giusta scoperta delle proprie origini per i figli, la difficoltà di accedere ad un’anamnesi familiare e l’entrata in campo di questioni come la fecondazione assistita e la gestazione per altri, si sarebbe potuto trasformare in uno sterile dibattito a tesi.

Così Bardani sembra avvicinare e avvicinarsi ad un recente titolo sullo stesso tema, Ritorno a Seoul di Davy Chou, lì con la venticinquenne Freddie che nata in Corea, adottata in Francia, durante un viaggio in Asia fa una deviazione capitale – e alla fine capitalistica – sulla tratta orientalistica per riscoprire le sue origini e conoscere la donna e l’uomo che l’hanno data in adozione.

Certo, l’afflato autoriale e l’orizzonte di mercato sono lontani ma neanche troppo, però quello che Il più bel secolo della mia vita fa è di scartare a lato rispetto al pamphlet puramente civile e politico, per concentrarsi sulle vite piccole ma grandi dei suoi protagonisti, Gustavo e Giovanni. Ed è qui che il film trova la sua intima ragion d’essere, cioè elevando il bozzetto compiaciuto del personaggio di Castellitto a correlativo oggettivo di un’intera nazione, quando di giorno si andava a gareggiare a Vallelunga e di notte ad alzare i calici a Via Veneto, senza passare sopra ad una sorta di sottovalutata presa di coscienza delle ultime generazioni che cercano un riconoscimento attraverso delle sincere ma centrali battaglie pubbliche – il percorso di Giovanni.

Tutto questo è innervato dalla regia di Bardani, misurata al secondo sul senso dell’operazione, capace di scorrere placida e cheta per l’intera durata del film e poi tentare qualcosa in più, tra la sequenza iniziale in bianco e nero e certe insistenze sul visto centenario ma vivissimo di Castellitto. Cinema medio, cinema giusto, cinema che ci deve sempre stare.

IL PIÙ BEL SECOLO DELLA MIA VITA
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TERMINATA