I DANNATI

Il film vincitore al Festival di Cannes 2024 per la miglior regia Sezione ufficiale "Un Certain Regard"
I DANNATI

Inverno, 1862. Da qualche parte nelle terre dell’Ovest, un manipolo di soldati nordisti deve perlustrare il territorio e resistere due settimane prima dell’arrivo della ‘cavalleria’. In attesa di un nemico invisibile organizzano il campo e le guardie. Giovani volontari, che hanno sparato soltanto ai conigli, o soldati di lungo corso, che lucidano Colt e fucili, giocano a carte e si scambiano pensieri sulla guerra civile che dilania l’America. Come solo orizzonte un crinale dietro il quale riparare ed oltre il quale avanzare e interrogare il senso del loro arruolamento. Sono soli sulla terra, trafitti soltanto da un colpo di carabina, ed è subito neve.

I nordisti, i cavalli, le giubbe blu, le montagne innevate, i carri, l’accampamento… sono tutti archetipi del western eppure nel film di Roberto Minervini sembra di scoprirli per la prima volta.

È una questione di sguardo, di tempo, di suoni, soprattutto di silenzio, è una questione di attesa (soltanto Buzzati ha fatto meglio), è una questione di soldati perduti, malgrado la fede, il padre e la Patria.

Discretamente e ostinatamente, l’autore italiano traslocato in America prosegue la sua strada di cinema, un sentiero accidentato ai margini di Hollywood e contro le regole dello spettacolo dominante. Si fa domande Minervini e le risposte sono sempre magnifiche. Questa volta è un film di guerra come una preghiera, fondato sull’esperienza della durata, l’attenzione minuziosa alle persone e ai luoghi, la forza tellurica dei quadri, gli spazi vergini, l’assordante laconismo degli attori.

Perché i suoi film parlano un po’ meno, osservano un po’ di più e comprendono meglio quello che siamo. I paesaggi sommergono lo schermo e hanno il tempo di depositarsi, come i personaggi, che marciano o resistono trafiggendo con la loro presenza e le loro questioni montagne e pianure. E in quello spazio infinito c’è sempre un posto dove raggomitolarsi, come il soldato che si è arruolato senza ragione e adesso ‘sente’ la vita come la neve.

I dannati comincia come il romanzo di Stephen Crane (“Il segno rosso del coraggio”), fonte di tutta la letteratura sulla guerra civile americana (1861-1865), avanza a cavallo lungo sentieri di fango liquido, costeggia un fiume nero e poi smonta i soldati per montare alloggi e rifugi da occupare con settimane di ozio e di monotona attesa. Un raggio di sole dorato buca le nuvole e accarezza le barbe incolte dei ‘guerrieri’, sfuggendo liricamente alla circolarità dei loro ragionamenti. Minervini compone dei tableaux vivants di una guerra che è tutte le guerre insieme, dove i soldati combattono per diventare uomini, forse eroi, sicuramente cadaveri. Il film prende piena misura del destino dell’individuo in mezzo a forze collettive. La battaglia è imminente, l’inferno non è mai lontano. Irrompe improvviso nelle immagini e nei suoni, avvicinando la narrazione al fantastico, come per ritagliare le scene di guerra da una possibile realtà. Quello che i soldati vedono non è di questo mondo, ma appartiene al regno dei morti.

Tutta l’arte di Minervini è tesa a rendere ogni loro istante sensibile in un film spoglio di elementi romanzeschi. Una sola attitudine, una sola situazione, un solo sentimento occupa tutti i personaggi: l’attesa. L’esercito del resto è forse la sola istituzione la cui unica giustificazione è la preparazione di una guerra che tutti passano la vita ad aspettare. E quello che tutti aspettano è così indeterminato, così improbabile, che lo diremmo quasi immaginario ma poi la guerra arriva come uno schioppo e senza occasioni di gloria. Il nemico carica e spara, è un’ombra a cavallo, in controluce o dietro i bagliori delle fucilate. È la luce a legare materia e spirito, alto e basso, puro e impuro. La luce colpisce tutte le cose, accarezza i contorni degli uomini, conferisce una densità inedita alla materia, impregna la natura con la sua fosforescenza e ricopre il mondo di un’aura magica.

Autore ‘fotosensibile’, Minervini coglie mirabilmente la sua naturale irradiazione, la sua diffusione pallida, le sue orlature crepuscolari. Nelle sue mani la luce è veicolo di una grazia sempre rinnovata, un soffio che attraversa e assolve il mondo materiale, compresa la carne. I dannati, che disegna l’America come stato di secessione permanente, non è una commistione di documentario e fiction ma la conferma della perfetta obsolescenza delle due categorie. Stabilendo una vicinanza (sempre) sorprendente coi suoi ‘personaggi’ ed evocando il panteismo luminoso di Malick, Minervini ci ricorda che qualche volta c’è più storia in un silenzio o in un guizzo di luce che in tutti i romanzi del mondo. Poi la neve cade sui volti levati, la morte è rimandata, la vita deve ancora arrivare

I DANNATI
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