Modena, 1957. Dodici anni dopo la fine della guerra, Enzo Ferrari, ex pilota di corse in lutto per la recente morte del figlio Dino, gestisce la sua azienda automobilistica con la moglie Laura e vive in segreto con l’amante Lina, madre del figlio illegittimo Piero. Ossessionato dalla competitività delle sue vetture nelle corse di velocità, Enzo spinge i suoi piloti a mettere a repentaglio le loro vite pur di prevalere, mentre la necessità di sostenere economicamente l’azienda lo costringe a rinegoziare la collaborazione con la moglie. La Mille miglia offrirà all’uomo e all’imprenditore Ferrari l’occasione per dare una svolta alla propria professionale e privata.
Michael Mann ha lavorato a lungo sulla figura di Ferrari, che nelle sue mani diventa un Saturno capace di divorare i propri figli (i due naturali e le sue stesse creazioni di metallo), padrone di sé e delle proprie ossessioni solamente nella dimensione della velocità estrema.
A un certo punto di Ferrari, che copre un solo anno nella vita dell’imprenditore modenese salvo un paio di sporadici flashback e qualche inevitabile scorciatoia nella ricostruzione storica, il protagonista interpretato da Adam Driver dice al designer Sergio Scaglietti (Lino Musella) che la sua ultima creazione, la splendida Ferrari 250 Testa Rossa, ha «un culo più bello di una statua del Canova»: è uno dei pochi momenti del film, in realtà, in cui le celeberrime macchine rosse fiammanti, «fiore all’occhiello della produzione italiana» (come si sente dire dall’avvocato Agnelli), sono al centro della scena, pienamente descritte e osservate in quanto oggetti pesanti e metallici ma irresistibili e seducenti.
Per il resto, la biografia a lungo inseguita da Mann e scritta da Troy Kennedy Martin (che ha lavorato a partire dal libro di Brock Yates ‘Enzo Ferrari: The Man and the Machine’) privilegia il melodramma familiare e il ritratto sfaccettato di un uomo separato dalla sua stessa vita e dalle sue stesse creature. Non si vedono motori, in Ferrari, non si parla quasi mai di ingegneria, non viene quasi mai messa esaltata la dimensione puramente immaginifica delle rosse di Maranello…
A quasi dieci anni da Blackhat, con il quale Mann trovava immagini ardite e sperimentali per rappresentare l’irrappresentabile tecnologia digitale, il passaggio a un racconto più classico e alla biografia di un campione del capitalismo novecentesco, scisso tra affari e sentimenti, corpo e velocità, spazio e tempo (come Ferrari spiega ai suoi piloti: due vetture non possono occupare lo stesso spazio nello tempo, e dunque chi è alla guida deve frenare o accettare l’eventualità della morte…), genera purtroppo un film irrisolto e scentrato.
Colpa senza dubbio degli aspetti produttivi dell’operazione: un budget non elevatissimo che abbassa la cura formale e la qualità delle immagini digitali (ma va detto che per fortuna, essendoci Mann alla guida, il ritratto dell’Italia anni ’50 non scade mai nell’effetto cartolina); l’obbligo di ricorrere a interpreti quasi sempre stranieri per personaggi italiani, con conseguente effetto di ridicolo e straniamento nell’uso dell’inglese e talvolta (immotivatamente) dell’italiano; l’alternanza fra il mondo famigliare di Ferrari e quello aziendale delle corse e della produzione, che genera un racconto pedante e didascalico, solo a tratti salvato dall’effetto di biopic televisivo dalla maestria regista di chi sa comunque trovare alcuni momenti significativi (come il monologo finale della moglie tradita Laura, in cui Penelope Cruz riesce finalmente a far dimenticare l’estraneità linguistica al personaggio).