Tutto è straordinario nella famiglia Madrigal. Straordinaria è la casa e straordinari sono tutti i suoi abitanti, dotati di talenti fuori dal comune, benedetti dalla magia che soccorse la nonna nel momento del bisogno, cinquant’anni prima, e che ancora illumina ogni cosa. Beh, quasi ogni cosa. Mirabel Madrigal, infatti, è l’unica a non avere ricevuto alcun dono. Paziente e generosa, sempre allegra nonostante tutto, fa il possibile per aiutare fratelli e genitori ma spesso finisce per essere d’intralcio agli altri, più bravi, più dotati, più amati. Soltanto quando la fiamma della magia minaccia di spegnersi, e il suo volto compare in una confusa visione del drammatico futuro che li aspetta, Mirabel decide che tocca a lei andare alla ricerca di una soluzione, e all’origine del mistero che l’avvolge.
Il viaggio di Mirabel è dunque un viaggio alla scoperta di sé e della propria luce, dopo che per anni ha vissuto all’ombra di quella dei suoi famigliari. Eppure Mirabel una specialità ce l’ha (ce lo dicono i suoi grandi occhiali tondi) ed è uno sguardo diverso dagli altri, esterno al gruppo di famiglia, marginale, si direbbe, ma anche lucido, affezionato, empatico.
Mirabel per prima vede le crepe nell’immagine impeccabile ma artefatta che Abuela, la matriarca, ha costruito con tanto impegno. Vede il peso delle aspettative che preme ulteriormente sulla schiena dalla forzutissima Luisa, già carica di cinque asini e di un pianoforte, e la gabbia dorata dentro cui la bellissima Isabella è costretta alla perfezione e a restituire un’immagine preconfezionata di sé. Mirabel ha, cioè, qualcosa che gli altri non hanno: la libertà di potersi ancora cercare, di sbagliare, di fallire persino, fuori dalla logica del protagonismo dominante.
Dentro questo musical scoppiettante, così precisamente localizzato al centro dell’America Latina, in una Colombia tutta ritmo e colore, si nasconde la realtà universale dell’estrema complessità di ciò che chiamiamo famiglia; un intreccio di sentimenti, traumi, eredità, aspettative, che ci dà la vita e ce la sconvolge nello stesso momento.
Encanto è perciò una storia antica e moderna, un racconto di rifondazione: quel riposizionamento anche doloroso o violento della fondamenta della casa (leggi: famiglia) che periodicamente ha bisogno di essere messo in atto, per liberare nuove energie e includere nuove prospettive. È un racconto di tradizione e rivoluzione, che passa attraverso l’accettazione dell’imperfezione, perché non è la bella apparenza che rende felici, ma la vicinanza all’essenza.
Sul piano stilistico, il film di Bush, Howard e Castro Smith, da un lato guarda alla grande famiglia d’origine, la filmografia allargata della Disney, per cui la mano di Mirabel sul pomello della porta funziona drammaturgicamente come l’impronta di Arlo sul silo del granoturco, dall’altro spinge avanti la tecnica (la qualità di alcune immagini è tale che sembrano di carne e ossa) e il lavoro sul genere.
In un musical già leggermente atipico, perché tinto di mistery, le canzoni di Lin-Manuel Miranda non sono approfondimenti ma vere e proprie sequenze che portano avanti il racconto, sintesi esplosive e ultra dinamiche dell’astrattismo e del virtuosismo (si pensi al numero di Luisa o a “We don’t talk about Bruno”) di cui è capace la Disney migliore