ELVIS

SPETTACOLO, INTRATTENIMENTO, INTERPRETAZIONI MAGISTRALI. IL CINEMA DI BAZ LUHRMANN RAGGIUNGE IL SUO PUNTO PIÙ ALTO.
ELVIS

Nascita, crescita, apoteosi e inizio di declino di Elvis Aaron Presley, il mito di più generazioni, vengono raccontati e riletti dal punto di vista del suo manager di tutta una vita: il Colonnello Tom Parker. È lui che accompagna, con voce narrante e presenza in scena, la dirompente ascesa di un’icona assoluta della musica e del costume mentre si impegna, apertamente ma anche in segretezza, per condizionarne la vita con il fine di salvaguardare la propria.

Baz Luhrmann fin da ragazzino che viveva nel Nuovo Galles del Sud in Australia, aveva il desiderio di incontrare Elvis. Presley. La sua morte aveva reso impossibile quel sogno. Il cinema ora gli ha consentito di farlo divenire trasposta realtà.

Se non ci fossero state esigenze di immediata riconoscibilità e di sintesi comunicativa questo film avrebbe potuto tranquillamente intitolarsi “Elvis, io e voi”. Perché il punto di vista narrativo sin da subito è quello di un mistificatore per eccellenza, quell’Andreas Cornelis van Kuijk che pretendeva di essere americano e si faceva chiamare Tom Parker. È l’uomo che condizionerà la vita di Elvis anche in modo molto pesante ma che non rinuncerà, nel corso del film, a chiamare a complice e, in alcuni casi, a correo il pubblico cioè coloro che hanno amato e adorato “The Pelvis”.

È nell’intreccio di queste tre dramatis personae che si sviluppa lo split screen di una vita con la quale il cinema di Luhrmann raggiunge il suo punto più alto realizzando un appuntamento a cui il suo stile non poteva sottrarsi. Perché il suo spettacolarizzare ciò che già di per sé ha tutti gli elementi dell’entertainment raggiunge qui la massima potenza liberandosi dalla gabbia del manierismo. È la vita stessa della star, che con il passare dei decenni conserva intatto il suo carisma, che gli ha offerto la partitura visiva che va a declinare utilizzando tutta la tecnologia attualmente disponibile ma non avendo mai neppure una singola inquadratura fine a se stessa.

Tutto ciò grazie anche a due interpretazione che definire magistrali è dir poco. Di Tom Hanks si credeva di conoscere tutto dal punto di vista del repertorio professionale ma il suo Colonnello Parker aggiunge una pietra miliare alla sua filmografia. Lo si osservi quando, indossate sul corpo debordante le vesti del padre putativo generoso, guarda da sotto in su quella che ritiene essere la sua sempre manipolabile creatura. Nei suoi occhi, più che nell’espressione della sua bocca, si legge tutta la malignità di quegli gnomi che in alcune fiabe solo apparentemente stanno dalla parte del Bene.

Ma è il trentunenne Austin Butler che rappresenta la grande sorpresa. Con una filmografia non travolgente alle spalle riesce a battere i pur validi Rami Malek di Bohemian Rhapsody e Taron Egerton di Rocketman. Il motivo? Butler non interpreta Elvis. È Elvis. Chi avrà modo di vedere anche la versione originale potrà verificarlo sequenza dopo sequenza, inflessione vocale dopo inflessione vocale. La sua è un’adesione totale alla persona e al personaggio permettendo così a Luhrmann non solo di narrarne il percorso professionale ma di leggerlo anche su un ancor più complesso piano storico e sociale.

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TERMINATA