E’ l’ultimo giorno di scuola per gli alunni della quinta elementare della Scuola Città Pestalozzi di Firenze. A ritroso, se ne ricostruisce il percorso di crescita fatto insieme agli insegnanti Matteo e Paolo: dai primi video della classe in grembiule agli esercizi teatrali a corpo libero per esprimere, oltre all’energia fisica, anche il sentimento; dall’attività didattica condivisa in classe fino alla gita scolastica con pernottamento fuori casa, fondamentale tappa di emancipazione e socializzazione. Un viaggio delicato che ha il suo esito naturale nel passaggio a un ambiente scolastico e a un’età più maturi ma non per questo meno costellati di paure, insidiosi.
Il titolo del bel documentario di Bondi e Bicocchi rievoca il best seller mondiale (“Intelligenza emotiva” di Daniel Goleman) che ha rimesso in discussione la distinzione netta tra l’aspetto della conoscenza – l’apprendimento di nozioni e il successo nell’applicarle – e quello della comunicazione empatica, la capacità di utilizzare la socialità a favore proprio e della comunità. Due fattori che non solo non si escludono a vicenda, ma l’equilibrio tra i quali è fortemente auspicabile, e non solo ai fini della didattica (almeno, secondo gli educatori che hanno ispirato e fatto da consulenti per il film). Il filo rosso seguito è la centralità dell’educazione agli affetti, quella capacità di trasmettere, a un individuo non ancora formato, gli strumenti e la sicurezza per manifestare e condividere, nel rispetto dell’altro, sensazioni e aspirazioni.
La scuola elementare si rivela quindi più che una somministrazione univoca di saperi, un cammino di ricerca di senso, una risposta al trauma della separazione, del cambiamento, delle ansie e rabbie represse (il Filippo di Educazione affettiva è sorprendentemente vicino a Jiovanni, ragazzino dai capelli lunghi e dall’umore analogo in Approaching the Elephant di Amanda Rose Wilder, documentario su una free school statunitense visto di recente al Torino Film Festival). Forse ricordando l’influenza di Chaplin sui bambini in Arrivederci ragazzi di Louis Malle, educatori e registi prendono come spunto il passaggio di un vocabolario intimo da parte del personaggio di Alfredo (Philippe Noiret) verso Totò (Salvatore Cascio) in Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Gli effetti di tale dialogo insegnanti/alunni prendono così vita, in un complesso, secco montaggio di 50′ che riassume 5 anni di vita.
Non c’è una singola storia, o un “personaggio” a spiccare sugli altri, ma una mappa, un mosaico di situazioni e reazioni a sfide reali, “da adulti”: paura del cambiamento, senso di solitudine, vergogna, imbarazzo nel rivelare l’amore, senso di esclusione dal gruppo, espressione di non detti. L’intento degli educatori, che entrano con raro tatto in audio e video, è quello di preparare i piccoli alla strutturale necessità di adattamento all’esistenza. L’elemento musicale in questo processo è quasi un personaggio a parte, il detonatore di un film che, à la Truffaut, non è sentimentalistico e non ha nessun timore di suonare sentimentale. In questa direzione non ricattatoria ma liberatoria risuonano tra una scena e l’altra la tradizione e il pop: “Infanzia e maturità” di Ennio Morricone e “Un senso” di Vasco Rossi, in un finale di amoroso distacco a cui è difficile resistere.