Art e Patrick sono amici da quando avevano 12 anni, ed entrambi giocano a tennis sognando una carriera da professionisti. Ma quando in campo scende Tashi, la giocatrice più brillante della sua generazione, la loro amicizia viene messa alla prova dalla competizione per le sue attenzioni. Anni dopo, quando Art, che nel frattempo è diventato una star del tennis (ma sta ancora inseguendo il sogno di vincere gli US Open), partecipa a un challenger, ovvero un incontro di livello inferiore nel mondo dei tornei professionistici, si trova di fronte proprio Patrick, che nel frattempo si è perso per strada, riducendosi a dormire nella sua automobile. E sarà sempre Tashi l’ago della bilancia fra quei due sfidanti che “potrebbero essere contendenti”, parafrasando il Marlon Brando di Fronte del porto, ma potrebbero invece soccombere alla loro tendenza a tirarsi la zappa sui piedi.
In realtà gli sfidanti sono tre, perché comprendono Tashi, la giovane donna volitiva e carismatica che sente il bisogno di controllare tutti e tutto – in primis i propri desideri.
Challengers, scritto dal drammaturgo e romanziere Justin Kuritzkes e diretto da Luca Guadagnino, è una esplorazione geometrica del desiderio che rimbalza come una pallina da tennis e colpisce gli avversari a 200 chilometri all’ora, quasi la velocità del proiettile.
Il triangolo non è l’unica geometria possibile, perché le figure si compongono e ricompongono in modo diverso.
Si fa prima a dire quello che Challengers NON è, a cominciare da “un film sul tennis”, perché Guadagnino racconta lo sport da profano, cominciando col togliergli una delle sue caratteristiche primarie, ovvero il silenzio durante i match, che il regista invade di musica elettronica (firmata da Trent Reznor & Atticus Ross, quelli di The Social Network) pulsante come il battito del cuore di due amici-rivali che solo sul campo riescono a veicolare i propri impulsi più profondi: non a caso il primo riff in scena richiama quello di “I feel love” di Giorgio Moroder. Del resto, come dirà Tashi, “il tennis è una relazione”, e Guadagnino lo usa in questa valenza: il fatto stesso di scegliere quello sport supremamente solitario e isolante per raccontare le regole (scorrette) dell’attrazione è intenzionalmente sovversivo.
Anche le inquadrature – i primissimi piani, le riprese fortemente inclinate o dal basso, come se i giocatori corressero sul vetro, o infine le soggettive, persino quelle della pallina – escono dal tradizionale racconto visivo del match di tennis e sono molto lontane anche da altre interpretazioni cinematografiche come Borg McEnroe o John McEnroe – L’impero della perfezione, ma più vicine al cinema di Sergio Leone, in particolare ai suoi duelli western. Quello che è realistico è invece l’universo fortemente brandizzato in cui si muovono i tre challenger, inconsapevoli di essere usati da un marketing che fa di loro eroi da detronizzare al primo fallimento. In questo senso Challengers sta al tennis come The Dreamers stava al ’68: entrambi si muovono su sfondi apparentemente secondari rispetto alle tensioni fra i tre protagonisti, e in realtà determinanti nella costruzione dei loro destini futuri.
Tuttavia Challengers NON è neanche un romance, nel senso che non racconta i sentimenti ma, appunto, le pulsioni – sessuali, di rivalsa, di autoaffermazione – e i “pensieri stupendi” che animano tre individui intenti a definire il proprio ruolo in modi antitetici. Anche le scene più intime non raccontano infatti un abbandono emotivo ma l’affermazione di un rapporto di potere, come quello dei cani in un cortile: c’è chi domina e chi subisce, chi combatte per essere riconosciuto come top dog e chi china il capo (attenti a dove si trovano le teste dei personaggi dopo le scene di sesso) sottomettendosi simbolicamente al più forte, magari per non perderne le attenzioni. Il film di Guadagnino NON è nemmeno una celebrazione agiografica dell’omosessualità, che è invece continuamente ironizzata (vedi la citazione orale e visiva di banane, churros, manici di racchetta e membri maschili in situazioni beffarde).
Guadagnino tiene desta l’attenzione del pubblico non tanto attraverso la tensione erotica fra i tre quanto attraverso l’abilità con cui manipola le relazioni fra i personaggi, che oscillano fra il materno, il fraterno e il trasgressivo. Anche la più adamantina fra i tre, Tashi, si rivela fragile davanti a chi la confronta con la verità su se stessa: l’interpretazione di Zendaya, un’attrice di cui è “impossibile non innamorarsi”, la salva sul ciglio del baratro della misoginia, così come con la sua espressione finale – che dovrebbe durare qualche secondo più a lungo, o addirittura trasformarsi in un freeze frame – e il suo grido “come on” – che speriamo venga tradotto con la giusta comprensione del suo significato – fanno di lei la divinatrice della “morale” della storia.
Challengers ha fragilità strutturali di cui tenere conto, come una timeline che rischia di confondere gli spettatori con i suoi continui balzi avanti e indietro nel tempo (suggerimento per il pubblico: tenere il taglio di capelli di Zendaya come punto di riferimento temporale), o l’assenza del primo incontro a due fra Tashi e Patrick, che renderebbe più comprensibile ciò che accade più avanti. Ma nella sua voglia di giocare con la natura volubile e feroce del desiderio e con le dinamiche del dominio e della sottomissione, Challengers ha in sé qualcosa di ludicamente, e maliziosamente, seduttivo.