Ester è un’ebrea italiana che, in seguito ad un rastrellamento, viene condotta nel campo di transito di Fossoli. Qui stringe amicizia con un’altra prigioniera ma la permanenza sarà breve perché la sua prossima destinazione sarà il campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Lì sperimenta il senso di solidarietà con altre donne ma anche il timore della delazione. Fuori dalla baracca, oltre al duro lavoro, spesso si assiste a soprusi ed uccisioni. Se poi nel ventre di Ester sembra si stia sviluppando una nuova vita la situazione si fa ancor più pericolosa.
Un film che racconta la Shoah vissuta dalle donne mettendo in luce come per loro la resistenza al tentativo di annullarne la personalità fosse una battaglia da combattere con determinazione ogni giorno.
Claudio Uberti ha realizzato un film che ha il grande merito di riportare alla memoria collettiva, in particolare in un periodo storico europeo come è quello che stiamo vivendo, la condizione femminile in un tempo in cui la guerra e le prevaricazioni diventano un contesto in cui lottare per conservare la propria dignità. Lo fa mettendo l’accento sulla condizione femminile analizzandone un ampio spettro di sfaccettature nel rapportarsi al dolore che si fonde con il tentativo quotidiano e scientifico di ridurre ognuna solo ad un numero tatuato su un braccio.
Le vicende delle protagoniste sono inserite in due contesti tristemente reali ma forse non abbastanza noti. Il campo di transito di Fossoli vicino a Carpi è uno dei luoghi in cui la Repubblica Sociale di Salò permetteva ai nazisti di raccogliere gli indesiderati, quelle ‘bocche inutili’ che danno il titolo al film. Da lì si partiva per i campi di sterminio più tristemente famosi ma anche per Ravensbrück, un luogo forse meno conosciuto che merita di essere ricordato con infamia. Perché lì non solo si praticava una sistematica violenza sulle donne ma si conducevano anche ‘esperimenti’ pseudo scientifici sui loro corpi.
Il film si apre con livelli di recitazione differenti resi ancor più evidenti da battute che sembrano più scritte che non pensate per essere pronunciate da donne in una situazione di costrizione e sofferenza. Progressivamente però questa sensazione sfuma per lasciare il posto ad un crescendo drammatico che fa della verosimiglianza il proprio punto di forza.
Chiuse nella baracca di Ravensbrück e ridotte di numero, ogni donna evidenzia elementi caratteriali differenti e reazioni individuali di fronte al senso di morte che pervade quella che diviene una scena teatrale senza che però si abbia la sensazione di teatro portato sullo schermo. Tutto ruota intorno ad Ester, in particolare dopo che lei avverte i primi segni di una possibile maternità. Questo però non mette in ombra le altre figure ad ognuna delle quali viene dato il giusto spazio. C’è la non ebrea che si chiude nel mutismo dopo aver sofferto l’umiliazione di essere stata scelta come corpo da offrire alle brame dei capi del campo. Ci sono due deportate che hanno un progetto di fuga di non facile realizzazione e c’è la donna più matura che diviene elemento di equilibrio anche nelle situazioni più difficili.
Non sappiamo se il film sia stato girato in ordine cronologico. Quello che emerge dalla visione è che Uberti ha portato sullo schermo interpreti che sembrano entrare progressivamente nel loro ruolo offrendogli, ognuna a suo modo, tutta la sensibilità che era necessaria. Non capita sempre e questo è un altro dei meriti di questo film.