BE MY VOICE

LA STORIA E LE BATTAGLIE DI MASIH ALINEJAD IN UN INSTANT MOVIE RICCO DI PASSIONE E PREZIOSE TESTIMONIANZE.
BE MY VOICE

25 novembre

GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Iniziativa organizzata dal Comune di Castiglione del Lago – Assessorato alle Politiche Sociali

PROIEZIONE A INGRESSO LIBERO  

La regista Nahid Persson, nata a Shiraz ma residente in Svezia, contatta la connazionale Masih Alinejad, giornalista che vive col marito a New York, per girare un film inchiesta su di lei. Nata nel 1976 a Ghomi Kola, piccolo villaggio dell’interno iraniano, è stata attratta dall’indipendenza fin da piccola. Dopo gli studi e l’attività di giornalista parlamentare a Teheran, Masih è espatriata nel 2009. Nel 2014 ha lanciato My Stealthy Freedom, pagina Facebook nella quale invitava le donne iraniane a liberarsi del velo, filmandosi. Dal 2015 ha un proprio spazio in farsi, Tablet, all’interno di Voice of America, broadcaster governativo di news che trasmette in quarantasette lingue. Perché con oltre sei milioni di follower solo su Instagram, inevitabilmente Masih è diventata la cassa di risonanza di migliaia di iraniani, per lo più donne, che si ribellano alla dittatura della Repubblica Islamica inviando a lei foto e video e pagando un prezzo altissimo: minacce, arresti, torture, persecuzione, carcerazione.

Attraverso il suo accesso libero ai media, urla e (di)mostra al mondo la costante violazione dei diritti umani e sprona i leader mondiali a non legittimare la dittatura, a non stringere le mani dei capi politici e religiosi del suo Paese, che ha persino citato in una causa. Eloquio da mitragliatrice, Masih esibisce con fierezza una folta chioma di ricci, simbolo della sua lotta all’obbligo dell’hijab, adornata spesso da un fiore. Nel film si intravede anche il suo libro, pubblicato in italiano nel 2020 da Nessun dogma come “Il vento tra i capelli – La mia lotta per la libertà nel moderno Iran”.

Vincitore nel 2021 del festival di film d’inchiesta Pordenone Docs – Le voci del documentario, Be My Voice ha il suo punto di forza nella quantità di informazioni che la sua instancabile protagonista veicola, nell’energia che oppone a un sistema di potere cieco e arcaico.

Il suo cuore è nel montaggio di immagini per lo più girate da fotocamere di cellulari, veri coprotagonisti del film, e che, in quanto uniche testimonianze del presente, in un Paese che ha censurato i social e la rete, interessano maggiormente la regista e il pubblico. Immagini insostenibili, che costituiranno la memoria di una repressione implacabile e sottorappresentata.

Oltre a ciò il film certifica anche un passaggio di testimone tra due donne iraniane di generazioni diverse che hanno trovato nei media la loro costosa libertà: Nahid Persson ha dedicato molti suoi film all’Iran (“una terra brutale”); nata nel 1960, quindi ha vissuto in pieno la rivoluzione del 1979 (“non avremmo mai immaginato che sarebbe stato il clero reazionario e misogino, a prendere il potere”), come ci ricordano alcune sequenze di dimostrazioni di piazza di allora contro Khomeini (“se non obbediscono alla legge, le scortichiamo vive”).

Già autrice di The Queen and I (intervista a Farah Diba, ultima imperatrice e moglie dello scià di Persia) e del più autobiografico My Stolen Revolution, qui pedina le giornate frenetiche, iperconnesse e psicologicamente dilanianti di Masih. L’unica presenza concessa è quella del marito di Masih, Kambiz Foroohar, anche lui giornalista politico, presente sia nei momenti di esaltazione della consorte, che in quelli, altrettanto frequenti, di disperazione, paura e senso di colpa per le minacce subite dai propri familiari e connazionali.

Tra i tanti volti di incarcerati, oppressi, picchiati, spiccano quelli di Ali, l’amato fratello “alleato” di Masih, a sua volta incarcerato, e quello dell’attivista Raheleh Ahmadi, sostenitrice dei diritti delle donne, mentre viene ricordato il collega dissidente Ruhollah Zam, giustiziato tramite impiccagione nel 2020.

Alla frustrazione delle intimidazioni e alla solitudine dell’esilio che la tiene lontana dalla sua famiglia, Masih, cresciuta in campagna, risponde ostinatamente con la traboccante vitalità dei frutti e fiori del suo giardino di Brooklyn, un fazzoletto di terra con girasoli e altre piante, di cui ognuna rappresenta uno dei suoi cari lontani. Da lì trae la forza di vivere e lottare, dal profumo del basilico i ricordi delle proprie radici (“se ognuno di noi piantasse un seme, il mondo sarebbe pieno di fiori”, dice). Dedicato “a tutti i prigionieri politici e a tutte quelle persone che vivono in quella grande prigione che si chiama Iran”.

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