Festival di Cannes, 1972: in via del tutto eccezionale la giuria assegna un ex aequo a Il caso Mattei di Francesco Rosi e a La classe operaia va in paradiso di Elio Petri. Il protagonista di entrambi è Gian Maria Volonté, che la Croisette ha già apprezzato due anni prima, con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. I due film premiati a Cannes sono la conferma della purezza di un metodo, il suo, che ha dettato una linea inconfondibile: un approccio assolutamente immersivo nel personaggio, non esattamente coincidente con il method acting di Strasberg via Stanislavskij, in cui l’attore è coinvolto in ogni dettaglio della rappresentazione, fino a diventare a pieno titolo coautore del film.
Un mestiere alimentato da un’ossessione: come ben argomenta e dimostra Volonté: l’uomo dai mille volti, il molto completo film di Francesco Zippel, puntellato su riferimenti d’archivio puntuali, non pedanti né scontati e pareri critici competenti e informati, tra i quali quelli di Jean A. Gili, Margarethe Von Trotta, Fabrizio Gifuni, Toni Servillo, Fabio Ferzetti e della compagna Angelica Ippolito.
Un lavoro ossessivo, quello di Volonté, iniziato classicamente in una compagnia di giro e che cambia nettamente direzione dopo lo lo sceneggiato televisivo L’idiota di Giacomo Vaccari (1959), come rileva il biografo Mirko Capozzoli. Alle radici di quel metodo, un trascorso biografico, cioè l’esempio nefasto del padre dell’attore, processato e condannato a trent’anni di carcere per aver militato nel fascismo. “Crescendo, capisce di doversi emancipare da una biografia familiare che coincideva con la biografia della nazione”, osserva nel film Daniele Vicari, fondatore della pubblica Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté di Roma.
Da quel trauma deriva anche un’iper politicizzazione del gesto artistico, concentrata in anni di grande impegno e partecipazione; anni in cui l’attore nato a Torino nel 1933 partecipava a Documenti su Giuseppe Pinelli di Elio Petri e Nelo Risi, ricostruzione della morte dell’anarchico milanese, o filmava le lotte operaie a Roma, ripreso a sua volta da un ammiratore, a cui si deve uno stralcio di backstage.
Una delle cose ammirevoli del film, oltre al montaggio avvolgente di Michele Castelli, è il suo essere strutturato attorno alla lettura scenica che Volonté fa, nella RAI ancora in bianco e nero, della traduzione di Blowin’ In the Wind di Bob Dylan, con una sorpresa finale che non sveleremo, originale alternativa alla citatissima ballata di Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo (il film è dedicato a lui e alla moglie Vera Pescarolo, recentemente scomparsi).
In parallelo, il film insegue, fin dal primo degli interventi della figlia Giovanna Gravina Volonté (direttrice con Fabio Canu della manifestazione “La valigia dell’attore”, che si tiene all’isola di La Maddalena, dove Volonté è sepolto) la natura volatile, imprendibile, estremamente libertaria dell’uomo, insofferente all’autorità, al potere costituito – che ha pure incarnato nell’indimenticabile über-commissario di Indagine – così come all’autopromozione, come traspare da un paio di imbarazzate interviste televisive, e invece molto sensibile alle ingiustizie sociali e alla seduzione libertaria rappresentata dalla vita di mare.
Ecco perché il motivo tematico del vento attraversa tutto il film, simbolo dell’emancipazione del classico dylaniano e forza che muove la barca a vela. Volonté è scomparso esattamente trent’anni fa sul set di Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos ma il suo esempio cristallino è vivissimo in chiunque ami l’arte recitativa e questo film mette voglia di correre a scoprirne o riscoprirne la filmografia intera.