C’era una volta in un Paese non troppo lontano una principessa che non voleva essere regina. Diana Spencer era una principessa rosa che voleva vestire di rosso o magari di giallo, mangiare hamburger, guidare fino a Sandringham, sognare un regno migliore. Aveva baciato un rospo che sarebbe diventato un principe ingrato. C’era una volta una Vigilia di Natale e poi un castello freddo da gelare il sangue e la principessa che cacciava i draghi e volava via.
Un brushing, uno sguardo, un destino, pensavamo di conoscere tutto di lei, del suo matrimonio, della sua fine tragica, a soli trentasei anni. Eppure Lady D. è inesauribile, la sua vita è dappertutto. Su Netflix nella nuova stagione di The Crown, a Broadway con Diana, un musical realizzato a porte chiuse e in piena crisi sanitaria, al cinema ‘diretta’ da Pablo Larraín.
Ma non è la prima volta per lei sul grande schermo, la sua relazione turbolenta con il chirurgo Hasnat Khan era al centro del superfluo mélo di Oliver Hirschbiegel (Diana – La storia segreta di Lady D.). In Spencer come in The Crown c’è invece tutto quello che ci affascina in Diana. Il tic tac di un orologio che evoca un disastro imminente. Il ‘matrimonio del secolo’ era fatto della materia delle favole, il seguito lo conosciamo: adulteri, bulimia, autolesionismo, tentativo di suicidio.
Un incubo che nutre il mito secondo Larraín, che si concentra sul Natale del 1991, i tre giorni che convinsero Diana a mettere fine a undici anni di matrimonio combinato, mediatizzato, massacrato. Jackie, Neruda e Spencer non si somigliano ma condividono senz’altro l’arte di infiltrare la liturgia del biopic integrale e agiografico. Questa formula consiste soprattutto nell’interpretare una vita alla luce di un preciso momento storico (una settimana dopo l’assassinio di JFK per Jackie, la Vigilia di Natale del 1991 per Diana Spencer), nell’individuare un’istanza narrativa circostanziale (l’intervista per Jackie, la fuga per Neruda dopo un “J’accuse” al Senato nel 1948) e nella focalizzazione estrema sull’eroina o l’eroe. Come Natalie Portman prima di lei, Kristen Stewart è in tutti i piani. Come lei è in modalità mimetica.
Spencer è tutt’altro che un biopic, genere costituzionalmente promesso alla più grande banalità illustrativa. È l’inverso della favola, è il boccone amaro della torta, è una porzione della vita della Principessa di Galles, un brano di vita instabile, inafferrabile, perpetuamente ricomposto, cucito e scucito come le tende che la occultano ai giornalisti, spegnendo per sempre il sole.