La solitudine dei non amati

Un esordio incisivo che trascina lo spettatore in una spinosa anatomia di una separazione.
La solitudine dei non amati

Maria, già madre di due figli e divorziata dal primo marito, incontra a una festa Sigmund, con cui scatta l’amore. I due costruiscono una nuova famiglia ma il rapporto pian piano si deteriora tra incomprensioni, accuse reciproche e impeti di rabbia, lasciando Maria a chiedersi se ci sia qualcosa che non va in lei. Un’altra separazione sarà l’occasione per guardarsi dentro e ripensare sia il rapporto con Sigmund che quello con i figli.

Impietoso e incisivo, l’esordio alla regia della norvegese Lilja Ingolfsdottir trascina lo spettatore in un tour de force a cui ogni spettatore saprà relazionarsi.

Attraverso la figura di Maria, lo sguardo di Ingolfsdottir scruta con acume le mille difficoltà che si presentano nel tenere insieme il rapporto amoroso, offrendo il ritratto di una donna alle prese con il carico logistico ed emotivo di una famiglia intera, spesso sbilanciato sulle sue spalle. Lo fa però senza adagiarsi nel luogo comune, e cercando una sua strada con una lucidità d’analisi tutta scandinava.

Il titolo italiano assolve la protagonista più di quanto non facciano l’originale norvegese o quello internazionale (Loveable), che invece indagano con ironia una dimensione individuale, di cui i rapporti esterni sono solo il riflesso. E infatti il film, pur rimanendo anche una spinosa anatomia di una separazione, prende una piega decisa verso l’autoanalisi e l’importanza del rapporto con noi stessi – quello da cui nessun divorzio o pausa di riflessione ci potrà mai salvare.

Il trait d’union con La persona peggiore del mondo è labile e si limita a uno dei produttori, (Thomas Robsahm) eppure è comprensibile, visto che quello di Trier è il film norvegese di più alto profilo in questo decennio e gli argomenti sono simili. Ma Trier vola alto e fa cinema simbolico, mentre Ingolfsdottir rimane con i piedi per terra e da lì raccoglie con pazienza i pezzi sparsi di una vita già vissuta. In questo il suo approccio analitico ha più in comune con la trilogia Sex Love Dreams di Dag Johan Haugerud, e scava profondo nella figura di Maria fin quasi a strapparle via l’anima. È un film doloroso, ben condotto da Helga Guren la cui performance nel ruolo della protagonista è un’escursione intrepida tra le pieghe di un lungo nervo scoperto.

Al primo lungometraggio (ma forte di una corposa esperienza nei corti), la regista scivola a volte in una dimensione troppo letterale o inutilmente melodrammatica, in un’opera altrimenti scritta con buon senso della misura. Si tratta però di pochi momenti, ampiamente ripagati da un’esplorazione profonda dei limiti e delle mancanze che una persona può avere come partner. Se raccontare la fine di un amore è piuttosto comune, questa storia sembra chiederci un passo in più, domandando se le cause siano sempre state lì, dentro di noi.

La solitudine dei non amati
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