
Marco è un poeta 23enne alcolizzato che ha abbandonato la scuola, ha perso tutti i suoi amici ed è stato lasciato dalla sua ragazza. L’unico a rimanergli ostinatamente accanto è il padre, un tranviere che lo sorveglia come un cane da guardia, togliendogli il respiro (o almeno così lo percepisce il ragazzo). Una sera Marco sta recandosi ad un reading di poesie ma in preda alla tensione si ubriaca, e fa un incidente d’auto che lo spedisce dritto in ospedale. Suo padre e il suo editore lo spingono a trovarsi un lavoro, nel caso saltino fuori le analisi del suo stato di ebbrezza alla guida, che al momento dell’incidente la polizia ha trascurato. Farà l’addetto alle pulizie all’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma, e si unirà ad una squadra che a poco a poco diventerà per lui come una seconda famiglia.
Se questa trama suona familiare è perché ricorda da vicino quella di Tutto chiede salvezza, e non è un caso: “La casa degli sguardi” era il romanzo d’esordio di Daniele Mencarelli che raccontava il suo passato in maniera fortemente autobiografica, come lo farà poi in “Tutto chiede salvezza”, descrivendo il suo TSO.
Dunque il protagonista è di fatto lo stesso: soprattutto ha le stesse caratteristiche caratteriali e comportamentali, il che fa il curioso effetto di renderlo protagonista di una sorta di minisaga, considerato anche che Tutto chiede salvezza è già una serie alla sua seconda stagione.
Questa similitudine purtroppo è un problema per il film d’esordio alla regia di Luca Zingaretti, che in La casa degli sguardi si ritaglia il ruolo del padre interpretandolo con la sua magnifica duttilità di attore. L’impressione infatti è di “già visto”, anche perché non solo il protagonista, ma l’ambiente ospedaliero (che in Tutto chiede salvezza era un struttura psichiatrica) è simile e soprattutto è quasi identica la dinamica attraverso cui Marco si relaziona al suo gruppetto involontario, là di pazienti, qui di addetti alle pulizie.
Quel che distingue Zingaretti da Francesco Bruni, il regista di Tutto chiede salvezza, è il ritmo di narrazione, che in Bruni è più veloce e a tratti più sopra le righe, e qui è rallentato, quasi dilatato: il che è una scelta che rispetta profondamene l’afflato poetico di Marco (ovvero di Daniele Mencarelli), che si muove con un passo e un respiro diversi da quelli del resto del mondo, perché assorbe e restituisce ogni cosa in maniera più profonda, e dunque anche più lenta e sofferta.