L’ex adolescente Lydia Deetz è cresciuta, ma non ha perso l’abilità di vedere i fantasmi; solo che adesso la sfrutta per portare visibilità e soldi al suo show televisivo: “Ghost house”. La morte rocambolesca e improvvisa del padre, la riporta a Winter River, insieme alla figlia Astrid e alla matrigna Delia, per un ultimo saluto al defunto, proprio nel momento in cui viene visitata, a distanza di trentacinque anni, dalle sgradite apparizioni dell’incontenibile Beetlejuice, del quale sperava di essersi liberata per sempre.
Mentre Lydia è inseguita dalla sua vecchia conoscenza, lui è inseguito dalla sua ex moglie, che ha rimesso insieme i pezzi del proprio cadavere con una sparapunti, e anela a spettacolare vendetta. Intanto la giovanissima Astrid (Mercoledì attraverso lo specchio), infastidita dalla stranezza della madre, fa amicizia con un ragazzo locale che cita pericolosamente Dostoevskij. Ed è solo l’inizio.
Per essere il sequel di un film (la sua opera seconda) in cui Tim Burton cercava di mettere in piedi una trama narrativa che gli interessava il giusto ma serviva ad aprire le porte, questo Beetlejuice Beetlejuice è un trionfo di trame e sottotrame, sopra e sottoterra, un vero e proprio manifesto del the more the better.
Lo ‘spirito’ del film si respira già dai titoli di testa, dall’energia beffarda che Danny Elfman scarica in sincrono con il temporale (Uh! Ah! Uh! Ah!): e giù morti e rimorti, mostri in abiti da segretari, poliziotti dell’anticrimine dell’aldilà che si accoppiano al ritorno di spose cadaveri, patrigni in odore di idiozia, ed effetti speciali orgogliosamente artigianali.
Così, in questa allegra e sanguinolenta abbondanza, in cui i tratti generazionali si ripetono e confondono (anche grazie alla capacità di Jenna Ortega di interpretare credibilmente diverse età della vita senza un filo di trucco), Tim Burton si ritrova, dopo aver attraversato alcuni banchi di nebbia, e mette in scena un secondo capitolo migliore del primo, che restituisce, tra l’altro, al personaggio del titolo, il ruolo centrale che la prima volta gli era stato curiosamente negato.