Tonya

UN BIOPIC SULLA PATTINATRICE ACCUSATA DI AVER FATTO AGGREDIRE UNA RIVALE, TRA VERITÀ E IRONIA, DELLA VITA E DEL FILM
Tonya

Tonya Harding non ha avuto un’infanzia facile e le cose non le sono andate meglio crescendo. Eppure, sebbene sofferente d’asma e forte fumatrice, da sempre e per sempre poco amata dai giudici di gara, che non la ritenevano all’altezza di un modello da proporre, la Harding è stata una grande pattinatrice, la seconda donna ad eseguire un triplo axel in una competizione ufficiale e tuttora una delle pochissime ad averne avuto il coraggio, tanto che il film di Gillespie, che racconta la sua ascesa e la sua caduta, ripercorrendo la sua biografia dai 4 ai 44 anni, ha dovuto supplire con effetti speciali, non trovando nessuna controfigura disposta o capace di farlo.

E Tonya è anche un film sulla contro-figura, quella che ogni attore che si cimenta con un personaggio realmente esistito o esistente, è chiamato a impersonare.

Il cartello che apre il film avverte che è stato “tratto da interviste assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualsiasi ironia con Tonya Harding e Jeff Gillooly”, ma quel che segue è un film in cui ironia e verità, in dosi massicce, vanno a braccetto per tutto il tempo. Perché Tonya, la madre LaVona (interpretata da una straordinaria Allison Janney), il marito Jeff e il suo sodale Shawn sono personaggi da commedia, cinema allo stato precotto, pronti da riscaldare, senza tradirne la voce né l’apparenza.

I due uomini, in particolare, sembrano usciti da un saggio sulla stupidità umana: persone che causano danni ad altre persone senza realizzare alcun vantaggio e anzi subendo perdite gravissime, di cui Gillespie restituisce sullo schermo l’assurdità e la pericolosità, forte del buon copione di Steven Rogers ma soprattutto di un materiale di partenza, ampiamente presente nell’archivio audivisivo contemporaneo di YouTube, che balla da solo tra farsa e dramma.

È chiaro che, più che a rendere giustizia alla Harding, bistrattata per una vita da tutti, media compresi, per la nota aggressione alla rivale Nancy Kerrigan prima delle Olimpiadi del ’94, il film punta dritto all’Oscar e lo fa perseguendo due modalità rodate e vincenti: la performance di Margot Robbie, che s’imbruttisce e dà il meglio di sé nel rendere il temperamento focoso e psicolabile della giovanissima protagonista, e la volontà esplicita di fare dell’immagine di Tonya quello che il suo primato nello sport non è riuscito a fare, ovvero una sineddoche dell’America, della sua sete di eroi e di colpevoli, di successo e omologazione.

E se quest’ultima parte, questo salto di livello, è un po’ tirato per i capelli, è vero, d’altro canto, che il cuore nascosto del film, il suo lato migliore, è proprio in quel ritratto di outsider, reale e problematica, che dava fastidio per la sua sola esistenza. In un tempo come il nostro in cui il cinema non fa che dire che occorre avere il coraggio di essere se stessi e inseguire il proprio talento, I,Tonya racconta una donna diversa, e a suo modo consapevole di esserlo, a cui l’America (tra gli altri) ha sbattuto violentemente la porta in faccia.

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