Fiore

Un racconto sugli ultimi scansando la retorica e il buonismo con una regia agile e mai edulcorata.
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Dafne si trova in riformatorio per aver cercato di rubare un telefonino nella stazione in cui dormiva, sdraiata sopra una panchina. La ragazza è un gatto selvatico con alcuni precedenti alle spalle, una madre assente e un padre amorevole ma inadeguato che ha conosciuto da vicino la galera. Dafne vive alla giornata, e anche in riformatorio afferma la sua indole ribelle. Ma è anche una creatura profondamente sensibile, capace di profonda compassione e di quella solidarietà umana che nei suoi confronti è quasi sempre mancata. Quando incontra Josh, detenuto nell’ala maschile del riformatorio, individua in lui un’anima gemella e comincia a sperare in un happy ending opposto a quel destino che le è sempre apparso segnato.

Dopo Alì ha gli occhi azzurri, Claudio Giovannesi torna a raccontare gli ultimi concentrandosi in particolare sui più giovani e scansando la retorica e il buonismo grazie alla forza documentaria della sua regia agile e mai edulcorata. Giovannesi è un cavallo di razza dietro quella cinepresa che non stacca mai dai personaggi, stando loro sul collo e respirando il loro stesso respiro.
La storia di Fiore poggia sulle spalle esili (solo fisicamente) del personaggio femminile (un trend molto interessante del nuovo cinema italiano) che la regge con la grazia inconsapevole di un papavero di campo: il debutto di Daphne Scoccia è davvero notevole per immediatezza e carisma, e assai credibile è anche Josciua Algeri, con il suo accento che mescola hinterland milanese e radici meridionali con dolcezza e tracotanza. Ne emerge il ritratto di una vitalità insopprimibile come quelli dei fiori che crescono in mezzo al letame, o nelle fessure dei marciapiedi.
Il pregio di Giovannesi è soprattutto lo sguardo pulito che scansa istintivamente gli autocompiacimenti di molti altri autori cinematografici. Il difetto è l’esilità di una trama già vista, soprattutto nel cinema francofono: il personaggio di Dafne, senza tetto né legge, ha già avuto mille incarnazioni precedenti, da Bresson a Truffaut, da Agnès Varda ai Dardenne. Più originali la figura del padre, cui presta la consueta mestizia Valerio Mastandrea, e della matrigna rumena, né strega né fata benefica. Daphne Scoccia sconta purtroppo la somiglianza fisica con Astrid Berges-Frisbey, protagonista del più coraggioso e innovativo Alaska, anch’esso assai legato all’estetica cinematografica (e alla coproduzione) francese.
Auguriamo a Giovannesi di spingersi oltre le sue conoscenze filmiche pregresse e di buttare la cinepresa (e il cuore) oltre l’ostacolo per trovare la propria cifra originale, possibilmente radicata nel suo essere un regista italiano, oltre che un cittadino del mondo.

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PROGRAMMAZIONE
TERMINATA